Articoli

tratti dalla rivista

 

GIOVANNI PASCOLI A BARGA

a cura di Leonora Fabbri

da "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere di Gennaio, Giugno, Ottobre 2005 e Gennaio 2006
 

“AL TEMPO DEI TEMPI AVANTI IL MILLE, I BARGHIGIANI CAMPAVANO ROSICCHIANDO CASTAGNE, E FECERO IL DUOMO. DICEVANO: “IN CASA MIA CH'IO SALTI DA UN TRAVICELLO ALL'ALTRO; BENEDETTA LIBERTA! MA IL DUOMO HA DA ESSERE GRANDE, COL PIÙ BEL PULPITO DI MARMO CHE SI POSSA VEDERE. DICEVANO: PICCOLO IL MIO, GRANDE IL NOSTRO!”
PASCOLI

Queste parole sono incise, in stampatello, sopra la porta del campanile del Duomo di Barga e sintetizzano la profonda conoscenza del poeta di questa gente, che lo accolse nel 1895 a Castelvecchio di Barga, oggi Castelvecchio Pascoli, e continua ad onorarne la memoria.

Fu proprio a Barga nella frazione di Castelvecchio sul colle di Caprona che Giovanni Pascoli trascorse gli anni più belli e proficui della sua vita; egli stesso disse in un discorso pronunciato il 10 settembre 1911 nella Piazza del Comune: “Barga è la patria di quasi tutta l'opera mia.” Era suo vivo desiderio formare di nuovo una famiglia con le sorelle Maria e Ida, dopo le tragedie che lo avevano duramente colpito.

Giovanni Pascoli era nato a San Mauro di Romagna, oggi San Mauro Pascoli, il 31 dicembre 1855, 150 anni fa. Aveva trascorso la prima infanzia nella fattoria dei Principi Torlonia, – il padre Ruggero ne era amministratore – quarto di dieci figli, cinque maschi e cinque femmine, una famiglia benestante e stimata. Entrò nel collegio degli Scolopi a Urbino nel 1862, insieme ai fratelli Giacomo e Luigi. Da questa data la morte fu una costante nella sua vita. La sorella Ida morì a sette mesi nel 1962 (lo stesso nome verrà dato all'altra sorella che accompagnerà il poeta insieme a Maria). Carolina morì nel 1865 a cinque anni. Il 10 agosto 1968, il padre fu assassinato misteriosamente, a 52 anni, mentre tornava a casa. L'anno dopo moriva anche la sorella maggiore Margherita, diciottenne, seguita dalla madre, Caterina Allocatelli Vincenzi, a soli 40 anni. Morirono presto anche i due fratelli maggiori, Luigi a 17 anni nel 1871 e Giacomo a 24 anni nel 1876.

Con grande forza di volontà riuscì a superare dolori, disagi economici e incomprensioni politiche fino a laurearsi in letteratura greca il 17 giugno 1882 a Bologna. Finalmente poteva lavorare, guadagnare e prendere con sé le due sorelle, affidategli dalla madre in punto di morte. Nella casa di Castelvecchio, presa in affitto nel 1895 e poi acquistata nel 1902 in parte con la vendita di 5 medaglie d'oro vinte partecipando a concorsi di poesia latina ad Amsterdam, Ida abitò per poco poiché decise di sposarsi e farsi una famiglia sua. Vi rimasero insieme il poeta e la sorella Maria fino alla morte di Giovanni il 6 aprile 1912 e di Maria il 5 dicembre 1953.

Sono poche notizie, alcune tragiche, per capire meglio la sua opera, la sua sensibilità, a volte esasperata, la sua partecipazione alle sofferenze altrui.

Il 10 agosto di ogni anno, nel giardino di Casa Pascoli a Castelvecchio, viene organizzata una serata di poesia, musica e canto in omaggio a Pascoli.

X Agosto (da” Myricae”) e La cavalla storna (da “Canti di Castelvecchio”) sono le poesie più drammatiche sull'evento fatale della morte del padre del poeta.

X Agosto

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Come fu uccisa una rondine che “ aveva nel becco un insetto:/ la cena dei suoi rondinini”, così fu assassinato l'uomo che tornava a casa con due bambole in dono.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!

Il 10 agosto 2004, con un cielo dove le stelle non piangevano ma danzavano, è intervenuto l'attore Giorgio Albertazzi ed ha recitato con la sua voce calda e vibrante alcune poesie del Pascoli fra cui La cavalla storna .

È un colloquio fra la madre del poeta e la cavalla per scoprire chi fu l'assassino. Si sapeva chi era il colpevole, ma non furono mai trovate le prove per la sua condanna.

O cavallina, cavallina storna.,
che portavi colui che non ritorna;
 
lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
Con lui c'eri tu sola e la sua morte.
. . . . .
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise
esso t'è qui nelle pupille fise.
 
Chi fu? Chi è ? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come”.
. . . . .
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome … Sonò alto un nitrito.

E Albertazzi terminò la sua recitazione con un grido drammatico, il nitrito finale.

 

La raccolta “Canti di Castelvecchio” parla di Barga, della sua gente, anche emigrata all'estero, del territorio e dei suoi animali, dei raccolti, dei costumi, con l'uso a volte del linguaggio locale, aumentando così l'efficacia espressiva.

Nella Prefazione, il poeta dedica alla madre questi canti: “ Canti d'uccelli, anche questi: di pettirossi, di rosignoli, di cuculi, d'assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano. Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d'Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.

Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali.

…intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più di un anno.

Seguì mio padre. E qui devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre, e, via via, di fratelli maggiori, e d'ogni felicità e serenità nella vita?

Inizia la raccolta La poesia :

. . . . .

Io sono la lampada che arde
soave!
Nell'ore più sole e più tarde,
nell'ombra più mesta, più grave,
più buona, o fratello!

Ch'io penda sul capo a fanciulla
che pensa,
su madre che prega, su culla
che piange, su garrula mensa,
su tacito avello;

lontano risplende l'ardore
mio casto all'errante che trita
notturno piangendo nel cuore,
la pallida via della vita:
s'arresta; ma vede il mio raggio,
che gli arde nell'anima blando:
riprende l'oscuro viaggio
cantando.

In più occasioni Pascoli espresse la sua soddisfazione per essersi stabilito in terra di Barga. “Sono finalmente nel porto della pace”. “È una natura che incanta”.

Venni a Barga. Vidi che “c'era bello” e sostai. Ora la vostra accoglienza, o cittadini di Barga, mi dice che in questi luoghi “c'è buono”. Dove è la bellezza e la bontà il cuore dell'artista non ha altro a desiderare”. E ancora: “Voi mi dite vostro concittadino per il gusto di stabilirmi in campagna presso di voi. Né già per un commercio, né già per un calcolo qualunque; ma per contemplare il sole che tramonta dietro il monte Forato, la luna che pende come una lampada accesa sul colle di Barga, per aggirarmi all'ombra di castagni e parlare con cuori di contadini ”.

Attento agli usi dei contadini ne cantò le opere e le tradizioni. Con La Befana si ispirò ai canti tradizionali lucchesi dandoci la sua versione di una Befana che passa e guarda imparziale dalle finestre sia dei ricchi che dei poveri:

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda,
Come è stanca! La circonda
neve gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
. . . . .

E s'accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.
. . . . .

Guarda e guarda… tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
Guarda e guarda… ai capitoni
c'è tre calze lunghe e fini.
Oh! Tre calze e tre lettini…

La Befana alla finestra
sente e vede, e s'allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.
. . . . .

La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c'è chi piange, c'è chi ride:
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte.

 

Nel campanile del Duomo di Barga esiste un antico orologio collegato con le campane che scandiscono il tempo ogni quarto d'ora, “con i suoi quarti acuti nel principio e poi i tocchi gravi delle ore”, come descritto dal Pascoli stesso.

Al suono delle campane il poeta ascolta e ricorda:

L'ora di Barga

Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.

Tu dici, È l'ora; tu dici, È tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.
. . . .

Lascia che guardi dentro il mio cuore,
lascia ch'io viva del mio passato;
se c'è sul bronco sempre quel fiore,
s'io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d'ombra romita
lascia ch'io pianga su la mia vita!

E suona ancora l'ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo
dove son quelli ch'amano ed amo.

Il poeta esclama: “lascia ch'io pianga su la mia vita !”. Aveva conosciuto il dolore e la miseria, “l'amarezza della lotta quotidiana per sopravvivere – era anche stato sempre di salute cagionevole - e la rinuncia della lotta fino all'orlo del suicidio” (cito Riccardo Stefani), ma era “risalito dall'abisso dello sconforto fino a concepire la vita come una esperienza nella quale il dolore era un elemento indispensabile di purificazione, e l'amore verso i propri simili, la pietà dell'uomo verso l'uomo, un'ancora di salvezza”

Nel pieno della sua attività, sognando di ritirarsi per dedicarsi ai suoi studi nella pace di Castelvecchio, scrisse : “C'è del grande dolore e del gran mistero nel mondo, ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna c'è una gran consolazione.”

Ecco La mia sera con la sua contemplazione della natura prima e dopo la tempesta:

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggera.
Nel giorno, che lampi! Che scoppi!
Che pace, la sera!
. . . .

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena
. . . .

La poesia fu l'unico grande amore di Pascoli, anche se pubblicò la sua prima raccolta, “Myricae”, solo dopo i 35 anni, nel 1891.

Un particolare curioso dello studio della casa di Castelvecchio, che la sorella Maria, l'amata Mariù, custode fedele e divulgatrice di tutte le memorie del fratello, conservò per 41 anni arredata come quando vi abitava il poeta (non aveva permesso nemmeno l'uso dell'elettricità!), è la scrivania per gli studi su Dante Alighieri, e due tavoli, uno per la poesia in latino e l'altro per la poesia in italiano. “Formidabile metafora – è stato detto – della ricchezza degli interessi e dell'ispirazione di un grande poeta e letterato”. Fu anche un grande traduttore (latino, greco, francese, inglese). La sua cultura era vastissima. Si dilettava di musica, disegno e fotografia.

 

Giovanni Pascoli fu sempre sensibile agli eventi sociali e politici. Sfortunate furono le sue esperienze politiche di socialista internazionale con Andrea Costa e Severino Ferrari, quando era studente all'Università di Bologna, dove, vinta una borsa di studio, fu allievo di Giosuè Carducci. La sua adesione ai moti di Romagna (1879) gli costò alcuni mesi di prigione e bastò per convincerlo ad allontanarsi dalla vita politica.

Fu particolarmente vicino ai drammi degli emigranti che, a fine Ottocento e inizio Novecento, lasciavano la lucchesia ed anche altri paesi d'Italia, per recarsi prevalentemente in America e in Gran Bretagna, in cerca di lavoro e di una vita migliore, sperando sempre di ritornare e costruirsi una casa. Emigrante si sentiva egli stesso!

Nel poemetto Italy (da " Primi Poemetti ”) esprime con grande drammaticità la pena degli emigrati.

. . . .
quando sbarcati dagli ignoti mari
scorrean le terre ignote con un grido
straniero in bocca, a guadagnar danari
per farsi un campo, per rifarsi un nido…
. . . .
o va per via, battuto dalla pioggia.
Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.
Un uomo compra tutto. Anche l'alloggia!

E poi la condanna della patria matrigna, attraverso le parole della piccola Molly,
ammalata, venuta in Italia con la speranza di guarire:

Uno guardò la piccola straniera
prima non vista, muta, che tossì.
“…you like this country…” Ella negò severa:

“Oh no! Bad Italy! Bad Italy!”

L'utilizzo di parole inglesi “da loro (gli emigrati) accomodate a italiane”, come baschetto (per basket) = paniere per metterci le figure, checche (per cakes) = paste, ticchetta (per ticket) = biglietto, rende ancora più viva e vera la rappresentazione.

Giovanni Pascoli rifiutò il vocabolario aulico e con la presenza di onomatopee e di termini locali, con la fusione di italiano e di inglese, creò una lingua speciale di grande efficacia e modernità.

Straordinaria è la musicalità della poesia pascoliana. La maestria del poeta nell'uso della metrica e della rima e l'eleganza dei suoi versi rendono la sua poesia facilmente musicabile. Non pochi, infatti, furono i compositori che musicarono le poesie del Pascoli, sia prima che dopo la sua morte. Le partiture sono conservate nella casa di Castelvecchio. Il Pascoli coltivò un grande sogno: quello di fare il librettista di opere e allestire un melodramma, magari con la collaborazione del grande Giacomo Puccini, "il quale, però, artista dotato di uno spiccatissimo senso del teatro e degli ingredienti necessari per un'opera teatrale di successo, non trovò mai ispirazione nei testi pascoliani, sia per comporre un'opera o per musicare una della liriche del poeta, già musica di per se stesse (da "Caro Giovanni…" di Gualtiero Pia).

La concezione del melodramma del Pascoli era molto diversa da quella dei musicisti suoi contemporanei; era convinto che il testo doveva essere un'opera poetica e la musica doveva modellarsi sul testo; così la sua richiesta di collaborazione non solo con Puccini, ma anche con Leoncavallo, Mascagni ed altri rimase inascoltata e i suoi testi (sembra una trentina) rimasero nel cassetto. Finchè conobbe un giovane compositore - di 30 anni e cieco dall'età di 3 anni - Alfredo Carlo Mussinelli (La Spezia 1871-1955). Il musicista andò a Castelvecchio e il poeta gli donò il poemetto " Il sogno di Rosetta ". Il Mussinelli si mise subito al lavoro. Anche lui non era molto d'accordo sul concetto di melodramma del Pascoli, ma essendo il Pascoli già famoso come poeta e il Mussinelli ancora sconosciuto come compositore, aveva tutto da guadagnare. Adattò la musica al testo e l'opera fu rappresentata per la prima volta a Barga nel piccolo ma elegante Teatro dei Differenti per tre sere, il 14, il 15 e il 16 agosto 1901 con un pubblico sceltissimo e numeroso, ed ebbe un buon successo anche di critica, l'unico successo del Pascoli come "librettista".

Delusioni ma anche grandi soddisfazioni ebbe il poeta in questi ultimi anni della sua vita. Nel 1902 acquistò la casa di Castelvecchio; nel 1903 uscì la prima e la seconda edizione dei " Canti di Castelvecchio ”; nel 1904 uscirono i " Poemi conviviali ” e la terza edizione dei " Poemetti ”. Nello stesso anno accettò la cattedra di letteratura all'Università di Bologna, erede del suo grande maestro Giosuè Carducci; nel 1906 pubblicò " Odi e Inni ” e nel 1907 " Pensieri e discorsi ” - solo per citare alcuni fatti salienti. Il poeta faceva la spola fra Castelvecchio e Bologna, sempre accompagnato da Mariù; fino alla fine: morì a Bologna e la sua salma fu traslata a Barga.
 

Oggi molti sono i visitatori che vanno a Castelvecchio per vedere la Casa Museo, dove tutto è rimasto come al tempo in cui vi abitò il poeta con la sorella, che riposano nella piccola cappella, annessa alla casa. Sul muro a lato della porta d'ingresso della cappella, vicino all'edera che rigogliosa cresce abbarbicata all'altana, ancora a testimoniare il profondo rispetto del Pascoli per la vita in tutte le sue manifestazioni, ci sono scritti i seguenti versi:

Lasciate quell'edera! Ha i capi
fioriti. Fiorisce fedele
d'ottobre e vi vengono l'api
per l'ultimo miele

Leonora Fabbri

 

Recenti pubblicazioni significative su Giovanni Pascoli

Umberto Sereni, GIOVANNI PASCOLI nella Valle del Bello e del Buono , Maria Pacini Fazzi, Lucca, 2004

Gianluigi Ruggio, Castelvecchio Pascoli - La casa del poeta – Ricordi e presenze , Fondazione Ricci, Barga, 1997

Gualtiero Pia, Caro Giovanni… , Fondazione Ricci, Castelvecchio Pascoli, 1995

Alfreda Rossi Verzani, GIOVANNI PASCOLI a Castelvecchio , a cura dell'Ass. Pro-Loco di Barga.

Gian Luigi Ruggio, GIOVANNI PASCOLI - Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta , Simonelli Editore, Milano, 1998

Mario Pazzaglia , PASCOLI , Salerno Editrice, Roma, 2002

Graziella Cosimini, Giovanni Pascoli "fotografo" , Istituto Storico Lucchese, Sezione di Barga, 1996

Giuseppe Da Prato, "Il sogno di Rosetta", "Mare", "Novembre", Musiche Pascoliane , Istituto Storico Lucchese, Sezione di Barga, 2004

Ilio Donati, "La tessitrice", "Orfano", Musiche Pascoliane , Istituto Storico Lucchese, Sezione di Barga, 2004