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MODERNITA' DEL MADRIGALE

di Gioia Guarducci

da "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere di Gennaio, Giugno e Ottobre 2007 e Gennaio 2008

 

Il madrigale, parola le cui origini si perdono nella storia della nostra poesia, ha origine incerta; per alcuni potrebbe derivare da “mandrialis = canto pastorale riferito alla mandria, mentre per altri da “matricale”= canto scritto in lingua materna, cioè in lingua volgare e non più in latino.

Questa, che è una delle forme poetiche più snelle della poesia italiana, aveva dimensioni variabili fra i cinque e i quindici versi endecasillabi, ma di norma non superava gli undici o dodici versi (spesso con rime: ABA BCB CDC EE FF).

Nato come poesia popolare, di argomento amoroso e di ambientazione campestre, il madrigale passò nel XIV secolo alla poesia colta.

Il madrigale sembra essere perfetto per esprimere sentimenti, stati d'animo, impressioni, dediche, preghiere. Come nel sonetto la brevità è un pregio non facile da raggiungere, è necessario possedere equilibrio e intensità di linguaggio, senza sbavature né ridondanze.

Vediamo innanzitutto due madrigali tratti dal Canzoniere del Petrarca, il primo con coda a rima baciata e il secondo senza.

Francesco Petrarca

Nova angeletta sovra l'ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva,
là 'nd'io passava sol per mio destino.

Poi che senza compagna et senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
tese fra l'erba ond'è verde il camino.

Allor fui preso; et non mi spiacque poi,
sì dolce lume uscia degli occhi suoi.

(dal Canzoniere, CVI)

Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, et del mio mal non cura,
et tra duo ta' nemici è sì secura.

Tu se' armato, et ella in treccia e 'n gonna
si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l'erba,
ver' me spietata, e 'ncontra te superba.

I' son pregion; ma se pietà anchor serba
l'arco tuo saldo, et qualchuna saetta,
fa' di te et di me, signor, vendetta.

( dal Canzoniere, CXXI)

Nei madrigali, nei secoli successivi vennero usati non più solo endecasillabi ma anche settenari con una piacevole alternanza di versi brevi e lunghi; le rime erano liberamente accostate, mentre il finale era sempre a rima baciata.

 

La poesia del Cinquecento, influenzata dal Petrarca, come ben sappiamo, ci tramanda una gran copia di madrigali.

Gaspara Stampa (Rime)

Il cor verrebbe teco,
nel tuo partir signore,
s'egli fosse più meco,
poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.

Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omèi:

e se vedi mancarti la lor scòrta,
pensa ch'io sarò morta.

Anche un artista come Michelangelo Buonarroti amò scriverne, come vediamo nelle “Rime”, pur se la poesia era da lui considerata "cosa sciocca", a sottintendere come la sua vera passione fossero le arti figurative e l'architettura.

Quanto sare' men doglia il morir presto
che provar mille morte ad ora in ora,
da ch'in cambio d'amarla, vuol ch'io mora!
Ahi, che doglia infinita
sente 'l mio cor, quando gli torna in mente
che quella ch'io tant'amo amor non sente!
Come resterò 'n vita?
Anzi mi dice, per più doglia darmi,
che se stessa non ama; e vero parmi.
Come posso sperar di me le dolga,
se se stessa non ama? ahi triste sorte!
Che fia pur ver ch'io ne trarrò la morte?

Qui di seguito possiamo leggere un madrigale tratto dalle Rime di Ludovico Ariosto :

Quel foco, ch'io pensai che fuss'estinto
Dal tempo, da gli affanni ed il star lunge,
Signor, pur arde, e cosa tal v'aggiunge
Ch'altro non sono ormai che fiamma ed ésca.
La vaga fera mia che pur m'infresca
Le care antiche piaghe,
Acciò mai non s'appaghe
L'alma del pianto che pur or comincio;
Errando lungo il Mincio
Più che mai bella e cruda oggi m'apparve,
Ed in un punto, ond'io ne muoia, sparve.

Nel XVI secolo parallelamente al Madrigale della tradizione letteraria acquistò fama il Madrigale legato alla musica, componimento che non aveva quasi niente in comune col precedente tranne il nome. Era infatti una composizione vocale a due o più voci, accompagnata o meno da strumenti musicali, che rifletteva lo schema metrico del testo.

Il rapporto tra madrigale e poesia, tra musica e letteratura nel ‘500, creò una vera fusione dei due generi. Inoltre per un poeta vedere i propri testi musicati era anche allora un momento di grande importanza.

Molti musicisti quali Marenzio, Claudio Monteverdi ed altri musicarono i testi di poeti loro contemporanei, su tutti il Tasso, senza comunque tralasciare i versi principalmente del grande Petrarca.

Torquato Tasso ( Rime)

Un'ape esser vorrei
donna bella e crudele,
che sussurrando in voi suggesse il mele;
e, non potendo il cor, potesse almeno
pungervi il bianco seno,
e ‘n sì dolce ferita
vendicata lasciar la propria vita.

Battista Guarini (Madrigali)

Che dar più vi poss'io?
Caro mio ben, prendete: eccovi il core,
pegno de la mia fede e del mio amore.
E se per darli vita a voi l'invio,
no 'l lasciate morire;
nudritel di dolcissimo gioire,
ché vostro il fece Amor, natura mio.
Non vedete, mia vita,
che l'immagine vostra è in lui scolpita?

 

Pur se nel XVII secolo questa forma poetica cominciò a perdere d'importanza, molto noti furono i versi di Giambattista Marino, presenti in molte raccolte di madrigali musicali dell'epoca,

Scusa di bacio mordace

Al desir troppo ingordo
perdona, o Cinzia; e s'io ti suggo e mordo,
scusa la fame ardente,
ch'alletta al cibo suo l'avido dente.
Né tu lagnar ti dèi,
ch'io macchi il volto tuo co' baci miei,
ché l'altra Cinzia ancor, la dea di Delo,
ha pur tinto di macchie il volto in cielo.

 

Nel Settecento, Pietro Trapassi, meglio conosciuto come Metastasio (dal suo cognome grecizzato), molto fecondo nella sua composizione poetica, non tralasciò di comporre anche madrigali. Questo fu scritto per accompagnare il dono di un canestrino d'avorio intagliato da parte di un principe alla regina d'Inghilterra.

Della dea del Tamigi
so che a formarti degno,
candido avorio, ho travagliato invano.
Ma va. Potrai qual sei
rendere accetto a lei
dell'artefice, il cor
se non la mano.

 

I poeti romantici nell'Ottocento osteggiarono questa forma, considerandola poesia “scipitamente amorosetta e semplicetta”, come disse Niccolò Tommaseo.

Lo stesso Tommaseo, però, non disdegnò di scriverne, come pure Giosuè Carducci e D'Annunzio, che preferirono la forma trecentesca.

Giosuè Carducci

La stagion lieta e l'abito gentile
ancor sorride alla memoria in cima
e il verde colle ov'io la vidi prima.

Brillava a l'aree e a l'acque il novo aprile,
piegavan sotto il fiato di ponente
le fronde a tremolar soavemente.

Ed ella per la tenera foresta
Bionda cantava al sole in bianca vesta.

Gabriele D'Annunzio (Alcyone)

Tra i due porti, tra l'uno e l'altro faro,
bonaccia senza vele e senza nubi
dolce venata come le tue tempie.

Assai lungi, di là dall'Argentaro,
assai lungi le rupi e le paludi
di Circe, dell'iddía dalle molt'erbe.

E c'incantò con una stilla d'erbe
tutto il Tirreno, come un suo lebète!

Ma è soprattutto il Pascoli a reintrodurre a pieno nella poesia italiana il madrigale, con audaci innovazioni. Ne troviamo molti esempi nella raccolta Myricae e nei Canti di Castelvecchio.

Giovanni Pascoli (Myricae)

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;

chè il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s'ode
il suo sottil tintinnio come d'oro.

 

La forma in uso oggi non è più quella trecentesca (composta da otto a quattordici versi per lo più endecasillabi, talvolta misti a settenari, in terzine rimate secondo schemi variabili), ma deriva dalla forma monostrofica dei poeti del Cinquecento.

Nel Novecento lo schema del madrigale, composto di pochi endecasillabi e settenari chiusi da un distico a rima baciata, è stato apprezzato dai poeti forse proprio per la sua snellezza e per la mancanza di struttura rigida delle strofe.

Umberto Saba (L'Amorosa Spina)

Guarda là quella vezzosa,
guarda là quella smorfiosa.

Si restringe nelle spalle,
tiene il viso nello scialle.

O qual mai castigo ha avuto?
Nulla. Un bacio ha ricevuto.

Clemente Rebora (Canti dell'infermità)

Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo:
spasima l'anima in tutte le sue doglie

nell'ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte la ciel tese con raccolte cime:

fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s'inabissa ov'è più vero.

Molte poesie di Sandro Penna hanno il ritmo veloce del madrigale,

Placidi gatti, amanti
(sul prato l'ora è ferma)
di vetri luccicanti.

Goffamente beati,
da odore di caserma
si spogliano i soldati.

Ma effimero è alle cave
ansie il sole che ami.

Al vespro aspro, è grave
il cielo ai secchi rami.

 

Non pochi poeti del secondo Novecento, Montale (Madrigali fiorentini e Madrigali privati), Bertolucci, Pasolini (Madrigali a Dio), Fortini, Sanguineti ecc., hanno scritto versi in forma di madrigale, pur se con qualche concessione al gusto moderno, usando cioè il verso sciolto o le assonanze.

Eugenio Montale ( Madrigali Privati):

So che un raggio di sole (di Dio?) ancora
può incarnarsi se ai piedi della statua
di Lucrezia (una sera ella si scosse,
palpebrò) getti il volto contro il mio.

Qui nell'androne come sui trifogli;
qui sulle scale come là nel parco;
sempre nell'ombra; perché se tu sciogli
quel buio la mia rondine sia il falco.

Attilio Bertolucci (Sirio)

Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.

Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti,
sconvolge l'acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.

Poi, stanco s'addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l'amore.

Pier Paolo Pasolini (Madrigali a Dio)

Finché, segreto al mondo e il cuore al cuore
il mondo, ardevo di timidi entusiasmi
e di orgogliosi orgasmi,
fu un romanzo il mio vivere d'errori …
Un romanzo perduto
tra i felici fantasmi
di chi muore a un amore sconosciuto.
Ora il biancore muto
di quest'ultima pagina, il presente
disilluso,una sola
parola, una sola
parola ripete pazzamente.

Franco Fortini (Composita Solvantur)

Se volessi un'altra volta queste minime parole
sulla carta allineare (sulla carta che non duole)
il dolore che le ossa già comportano.

si farebbe troppo acuto, troppo simile all'acuto
degli uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto
sull'altissima magnolia si contendono.

Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso
che non dica a voce acuta: «Più non posso».
Grande fosforo imperiale, fanne cenere.

Edoardo Sanguineti (“Pro memoria” del 1987)

Mi mortifica e morde un madrigale
ellitico e equilatero e mi espone,
minato mostro di manutensione,

ovunque oscilla un ovulo ogivale:
rammento che il rammendo è riflessione,
istinto è l'insistita irritazione,

anima aperta è arguzia atramentale.

Gioia Guarducci