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UN POETA NEL CUORELeggere per non dimenticaredi Gioia Guarduccida "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere di Gennaio 2009SERGIO CORAZZINIUn amico del poeta, Alfredo Tusti, lo descrive così: «un giovane dal volto pallido, la fronte chiara con la ciocca di capelli bruni sulla tempia destra, la bocca tumida e rossa e gli occhi pieni di bontà e di festa» . Sergio Corazzini nasce a Roma nel 1886. Qui frequenta la sola scuola elementare, poi nel 1895, insieme con il fratello Gualtiero, continua gli studi nel Collegio Nazionale di Spoleto, ma nel 1898 deve abbandonare la scuola per difficoltà economiche del padre, già impiegato al Registro della Dataria Pontificia. Continua il Ginnasio a Roma, ma non si iscrive al Liceo, perché costretto a cercare lavoro per aiutare la famiglia. Si impiega quindi presso la compagnia di assicurazioni, "La Prussiana". Il poeta non ebbe un'esistenza felice (la rovina finanziaria della famiglia un tempo benestante, la madre ammalata di tisi, il fratello Gualtiero deceduto per la stessa malattia, il fratello Erberto che perirà in un incidente d'auto in Libia e il padre che terminerà la vita in un ospizio) e in Soliloqui di un pazzo (1905), la descrizione della squallida stanza dove è costretto a lavorare, buia, soffocante, con tetre inferriate alla finestra, assurge quasi a simbolo della sua vita. Straordinariamente precoce, è appassionato lettore non solo dei poeti italiani dell'Ottocento, ma anche dei poeti decadenti francesi, forma nei locali del Caffè Sartoris un cenacolo poetico con un gruppo di amici, tra cui Alfredo Tusti, Fausto Maria Martini, Corrado Govoni, Luciano Folgore, Alberto Tarchiani e pubblica una rivista letteraria “Cronache latine”, che avrà breve durata. Dopo aver pubblicato, giovanissimo, alcune poesie in vernacolo su giornali satirico-umoristici come il "Pasquino de Roma" (che successivamente cambiò il titolo in "Marforio") e il “Fracassa”, si dedica alla lirica in lingua. Dà alle stampe brevi raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L'amaro calice (1905), Le Aureole (1905), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Poemetti in prosa (1906), Libro per la sera della domenica (1906). Suo è anche un testo teatrale, "Il traguardo" (1905). La migliore ristampa delle sue opere si ha solo nel 1968 nel volume “Poesie edite e inedite”. Il poeta esprime con varie tonalità le ragioni profonde che lo legano alla nuova poesia dei Crepuscolari, ragioni che emergono nel suo negare d'essere poeta: Perché tu mi dici: poeta? e nel rifiuto dello stile retorico e roboante di tanta poesia dell'epoca, cui sono preferiti toni dimessi e "sinceri". Nei suoi versi ritroviamo qualcosa dell'esperienza pascoliana ed anche la lezione dei simbolisti d'Oltralpe. Corazzini fu amato per la autenticità del suo dolore, per la consapevolezza della brevità della sua vita in un mondo effimero e incomprensibile. La sua poesia non nasce solo dal male che lo mina, ma piuttosto da una malattia dell'anima, dai tremori, dalle ansie dell'adolescenza da poco trascorsa, dalle esitazioni della giovinezza, da una nostalgia perenne per un bene perduto, tutte sensazioni che si proiettano nella realtà che lo circonda. Il suo è un lungo, flebile monologo malinconico, percorso da un sentimento nostalgico dell'amore, dalla vaga sensazione del consumarsi delle cose, dal pensiero costante della fine. Ama le "piccole cose", dietro le quali non affiorano temi impegnati e profondi, descrive una realtà che fino ad allora è rimasta estranea alla poesia. Egli è il " piccolo fanciullo che piange" la vacuità del nulla e si abbandona al dolore: «Io, vedi, soffro molto, / e più soffro e più sento / che soffrirei;...». Pur nelle tante silenziose riflessioni non sa dare risposta al perché della vita: «E non domandarmi / io non saprei dirti che parole così vane». Altre volte egli scrive che «desidera solo dormire infinitamente». Le sue liriche esprimono un intenso desiderio per quella vita che la salute gravemente compromessa gli nega («io sono, veramente malato! / E muoio un poco ogni giorno...») e al contempo un nostalgico ritrarsi dal presente, proprio perché privo di aspettative per il domani. Ma nella poesia ritrova una sorta di folle felicità, così in una lettera ad un amico scrive: "Sai quando è che compongo delle meravigliose liriche? Allora che passeggio, solo, per le vie più ignote di Roma, nella notte. Canto, canto, tante cose strane, inverosimili, che mi fanno talvolta anche piangere un po'! Vedi se sono folle!». Minato dalla tubercolosi, nel 1905 soggiorna in un sanatorio a Nocera Umbra, dove conosce una giovane danese, per la quale prova un appassionato ma platonico affetto. Poi nello stesso anno si reca a Cremona, dai parenti materni, in cerca di un aiuto economico; qui fa conoscenza con una giovane con la quale intrattiene una breve corrispondenza epistolare. Marino Moretti così ricorda l'incontro con il giovane poeta avvenuto nel 1906, circa un anno prima della morte: «Entrò elegantissimo, un po' con l'aria di entrare in scena, se ben col sincero proposito d'abbracciare un fratello mai visto: giovane d'appena vent'anni, bello, prestante, aitante e tuttavia con qualcosa di vecchio nella figura e negli sguardi errabondi, candido e insieme letterario nell'espressione ... Confidava che stava per morire con una leggera effervescenza letteraria, sì che non pareva, dopo tutto, ch'egli dicesse e facesse sul serio ...». Per il grave stato della sua malattia, nel 1906 viene ricoverato al Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio inizia una fitta corrispondenza con il poeta Aldo Palazzeschi. Nel maggio del 1907 torna a Roma, ma, per l'aggravarsi del suo stato di salute, il 17 giugno muore nella sua casa, a soli 21 anni.
ALCUNE POESIE
Da Dolcezze (1904), Roma, tipografia cooperativa operaia romana. Il mio cuore Il mio cuore è una rossa
Giardini O piccoli giardini addormentati o ritrovi di sogni immacolati, o quanto v'amo! I sogni che rinserra Io v'amo, io v'amo, o fecondati al sole
Da L'amaro calice (1905), Roma, tipografia cooperativa operaia romana. Invito Anima pura come un'alba pura, anima, dolce buona creatura, Luce degli occhi, cuore del mio cuore, giglio fiorito a pena su lo stelo
Toblack (poesia ispirata a Dobbiaco, paesino dell'Alto Adige dove sorgeva una casa di cura per malati di tisi) II Le speranze perdute, le preghiere
Da Le Aureole (1905), Roma, tipografia cooperativa operaia romana. Sonetto della neve Nulla più triste di quell'orto era, Maternamente coronò la sera Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve parve celato come in una bara
Sonetto d'Autunno Dorma l'autunno e sogni ancora biondo
Da Poesie Sparse Tutta l'anima mia, tutte le pure Tutta l'anima mia, tutte le pure nelle loro precoci sepolture, Anima, come vano, come vano
Da Piccolo libro inutile (1906), Roma, tipografia cooperativa operaia romana. Per organo di Barberia I. Elemosina triste II. Vedi: nessuno ascolta.
È questa infine l'ultima poesia, scritta nell'imminenza della morte e pubblicata postuma su Vita letteraria, 28 giugno 1907. Qui l'autore si serve volutamente di un differente linguaggio, tessuto di oscuri significati e velatamente simbolico. La morte di Tantalo Noi sedemmo sull'orlo che non abbiamo saputo morire
Gioia Guarducci |