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ISABELLA MORRA

di  Elisabetta Antonangeli

da "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere di Maggio e Ottobre 2015

Percorrendo la Valle del fiume Sinni, in Basilicata, si arriva a Favole, l'odierna Valsinni, prov. di Matera, dove è nata la poetessa Isabella Morra, nel 1520 secondo Benedetto Croce, mentre il Caserta pone l'anno di nascita nel 1515. Valsinni è a pochi chilometri dal mar Jonio. È un piccolo centro aggrappato, quasi conficcato, nelle falde di un ripido colle (il Monte Coppolo) che, all'epoca di Isabella Morra, contava poche centinaia di abitanti, per lo più contadini.

Isabella trascorse la maggior parte della sua breve esistenza nel Castello che risale all'anno 1000, accessibile soltanto da un lato e da cui si può osservare la stretta valle dove scorre il fiume Sinni.
Lungo la via che sale al castello ad ogni curva c'è una targa con una poesia di Isabella. All'inizio del paese c'è un monumento che la raffigura, a mezzo busto, con un libro in mano.
Della sua vita, però, non ci furono notizie ufficiali fino a quando Marcantonio, che era il figlio del fratello minore di Isabella, Camillo, non pubblicò una storia della famiglia, nel 1629.
Era la terza di otto figli del barone Giovanni Michele Morra e di Luisa Brancaccio. (Marcantonio, Scipione, Decio, Cesare, Fabio, Camillo, Porzia).
Siamo all'epoca in cui l'Italia era percorsa in lungo e in largo da Francesi e Spagnoli.
Dopo la sconfitta dei Francesi, a cui il barone Giovanni Morra era fortemente legato, e la vittoria di Carlo V il Castello dei Morra passò alla Corona di Spagna e solo dopo varie trattative legali ritornò ai Morra. Ma nel frattempo, appunto dopo la sconfitta, Giovanni Morra fu costretto ad emigrare in Francia insieme al suo secondogenito (Scipione), per evitare un processo politico da parte degli Spagnoli.
Isabella allora era solo una bambina.

I rapporti di Isabella con i fratelli erano aspri. L'essere costretta a vivere con quei fratelli rozzi, sospettosi, ignoranti e per di più in un ambiente povero di stimoli, arretrato, gretto e chiuso determinò in lei una condizione di profonda infelicità.
Proprio la mancanza di lode, la certezza di essere sola senza possibilità alcuna di riferimenti, il senso del tempo e della fanciullezza che passavano inutilmente, alimentarono il bisogno d'amore inappagato e lo struggente desiderio del padre come il solo capace di toglierla da quella assurda condizione. E perciò scrive nel 3° sonetto:

 D'un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s'alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.
 Ma la mia adversa e spietata stella
non vuol ch'alcun conforto possa entrare
col tristo cor me, di pietà ribella,
la calda speme in pianto fa mutare.
 Ch'io non veggo nel mio remo né vela
(così deserto è lo infelice lito)
che l'onde fende o che le gonfi il vento.
 Contro Fortuna alor spargo querela,
ed ho in odio il denigrato sito
come sola cagion del mio tormento.
 
Non si trova nulla sulla madre, quale parte avesse nella famiglia. Sembra essere messa da parte senza nessuna responsabilità nei confronti dei figli.
Chiusa nel suo castello, Isabella vedeva sfumare la sua bellezza e la sua giovinezza tra uomini selvaggi, come l'ambiente circostante, incapaci di apprezzarla e di comprendere il suo dramma interiore. Infatti scrive:
"Quella che è detta la fiorita etade/ secca ed oscura, solitaria ed erma/ tutta ho passato qui cieca ed inferma,/ senza saper mai pregio di beltode". (Xl sonetto).

Isabella, per i suoi studi, veniva aiutata da un precettore privato. Aveva una buona cultura, formatasi con la lettura dei classici e del Petrarca, di cui subisce il fascino e l'influenza.
Il senso di solitudine, la mancanza di prospettive, i ciechi orizzonti chiusi davanti alla sua persona, la sensibilità accentuata dalla buona cultura, la spinsero a ricercare ogni possibile spiraglio di evasione.
Probabilmente il precettore privato, mosso a compassione, la mise in relazione con il poeta spagnolo (quindi anche nemico della famiglia Morra, simpatizzante dei francesi sconfitti) Diego Sandoval de Castro, Barone di Bollita, l'attuale Nova Siri, un paese vicino, al quale inviava i messaggi e le sue poesie.
Don Diego rappresentava, per Isabella, il letterato che poteva capirla, ascoltarla e al tempo stesso, era colui che poteva far uscire la sua poesia da Favole (o Valsinni).
Di che natura fosse quella relazione, sentimentale o di semplice amicizia intellettuale, a tutt'oggi rimane un mistero. Certo, se era quasi reclusa nel Castello, non si sa come si potessero vedere.
Si sa che le lettere che il Barone inviava ad Isabella erano a nome di sua moglie, Antonia Caracciolo, quindi si suppone che Isabella conoscesse questa donna già prima dell'inizio dello scambio epistolare.

Tre fratelli di Isabella, (Decio, Cesare e Fabio) venuti a sapere della relazione di Isabella con il Sandoval, in quanto le avevano trovato delle lettere che Diego scriveva alla sorella (il paese piccolo mormorava!), decisero rapidamente di porre fine alla relazione uccidendo prima il Precettore (probabile latore delle lettere di Isabella) e poi la sorella, picchiandola a morte o, secondo altre fonti, pugnalandola, nel 1546. (Sembra che non sia cambiato nulla oggi rispetto a quei tempi!)
Isabella, prevedendo che i fratelli l'avrebbero uccisa, scrive poesie che si riferiscono alla sua prossima fine. Nell'ottavo sonetto l'autrice si rivolge al fiume Sinni perché sia testimone della sua fine che sente vicina:

Torbido Siri, del mio mal superbo
or ch'io sento da presso il fine amaro,
fa' tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui 'l torna il suo destino acerbo.
 
Don Diego, temendo che la vendetta potesse abbattersi anche su di lui, si munì invano di una scorta, ma i tre assassini, con l'aiuto di tre zii, gli tesero un agguato in una battuta di caccia e lo uccisero.
(Non si sono trovati scritti di Isabella a Don Diego. I fratelli, dopo la sua morte, certamente ne hanno fatto sparire ogni riferimento).
Sembra che i testi poetici di Isabella giunti fino a noi siano stati scoperti e recuperati dagli ufficiali del Viceré, quando il Castello di Valsinni fu perquisito durante l'indagine che seguì l'uccisione del Barone di Sandoval.
L'assassinio di Don Diego provocò, all'epoca, reazioni di deplorazione molto più ampie che non l'uccisione di Isabella Morra. Per Isabella si trattava di un delitto d'onore, si trattava di una donna! Non era ammissibile, però, il coinvolgimento di terze persone nella risoluzione di un contenzioso mediante l'uccisione, a tradimento, di un superiore di rango. Per questi motivi i tre fratelli furono costretti a fuggire in Francia, dove raggiunsero il padre ed il fratello Scipione. (C'è chi scrive che il padre fosse già morto quando i figli andarono in Francia). Sembra che uno dei fratelli (come padre Cristoforo nei Promessi Sposi) si fosse fatto prete.

Isabella Morra non è una poetessa di grandi dimensioni, sia per quanto riguarda i contenuti o i temi, sia per quanto riguarda la forma, ma neanche per la quantità degli scritti che ci ha lasciato. (Anche se si pensa che molti siano andati distrutti).
D'altronde la sua breve vita non le ha permesso di produrre tanti scritti.
I temi sono: la Fortuna (si scaglia contro la Fortuna, l'avverso destino, che non l'assiste per niente; in quasi tutti i sonetti compare la parola Fortuna) e tutta la sua intima e personale sofferenza, derivata dalla sua sensibilità e dalla sua tragica vicenda umana.

Rispetto alle altre rimatrici del gruppo "petrarchesco" (Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara), che esprimono, sì, la loro vita interiore, la loro vita affettiva e sociale, perché hanno sempre punti di riferimento nella società, Isabella nelle sue rime esprime tutto il suo dramma umano, isolata com'è nel suo castello, con l'impossibilità di confrontarsi col mondo culturale del suo tempo.
Il Canzoniere di Isabella è una specie di autobiografia poetica, un lungo colloquio con se stessa e la sua anima tormentata.
Benedetto Croce la considera una delle più grandi rimatrici dell'epoca dopo Gaspara Stampa.
 
Il riferimento forte alla Fortuna apre il Canzoniere:

  I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo piangendo a la mia verde etade,
me che 'n sì vile ed orride contrade
spendo il mio tempo senza lode alcuna.
 Degno il sepolcro, se fu vil la cuna
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate,
malgrado de la cieca aspra importuna;
 e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
esser in pregio a più felici rive.
 Questa spoglia dov'or mi trovo involta
forse tale alto Re nel mondo vive,
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.
 
Il dolore, acuto ed autentico per la mancanza del padre, ritorna più volte nelle sue poesie. Ancora il padre e la sua assenza sono presenti in questi versi della canzone n° X:
 "Tu, crudel, de l'infanzia in quei pochi anni
del caro genitor mi festi priva".
 
E poi ancora si rivolge all'ambiente odiato:
                         7
 Ecco che un'altra volta, o valle inferna
fiume alpestre, or ruinati sassi,
ignudi spirti di virtude e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
 Ogni monte udirammi, ogni caverna,
ovunqu'io arresti, ovunqu'io muova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi,
cresce ogn'or il mio male, ogn'or l'eterna.
 Deh, mentre ch'io mi lagno e giorno e notte
o fere, o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,
 ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d'altro miserando fine.

L'ambiente è descritto a tinte fosche: "valle inferna"; "fiume alpestre"; "ruinati sassi"; "doglia eterna". Altrove scrive:" Vili ed orride contrade"; "selve incolte"; "solitarie grotte" "caverne"; "torbido Siri".
E se l'ambiente appare di per sé carico di significati sinistri, a renderlo ancora più squallido, è la presenza di "gente irrazionale", "priva d'ingegno", "aspro costume", e soprattutto "ignorante".
Tutto questo ci fa venire in mente Leopardi:
Entrambi sono nobili di nascita e soffrono la solitudine ed il rimpianto della fanciullezza-giovinezza che passa inutilmente; entrambi hanno un monte di riferimento (Coppolo è il monte di Valsinni e Tabor è il Colle di Recanati), isolato e silenzioso e che consente di guardare il mare, dà il senso dell'infinito; entrambi sono relegati in due paesini isolati e tagliati fuori dalla civiltà.
Solo qualche esempio per il confronto: Isabella Morra scrive: "Quella che è detta la fiorita etade", (trova riscontro in alcuni versi del: "Passero solitario"); Isabella: "Fra questi dumi/ fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno/... senza sostegno/ son costretta a menar il viver mio", il Leopardi sembra farle eco: "Né mi diceva il cor che l'età verde/ sarei dannato a consumar in questo/ natio borgo selvaggio, intra una gente/ zotica, vil ... "

La produzione poetica di Isabella Morra è il "Canzoniere" di soli 13 componimenti: 10 sonetti e 3 canzoni. Tra i sonetti e le canzoni non si nota nessuna differenza di stile.
Secondo alcuni studiosi, il Canzoniere potrebbe dividersi in due parti: la prima, definita terrena, testimonia la sua sofferenza, gli aneliti, i sogni, i desideri, le ansie e le angosce; la seconda, indicata come celeste, sembra essere segnata dalla rinuncia, dalla rassegnazione. Così i luoghi diventarono meno odiati, anche se sempre insopportabili.
Isabella, dunque, trovò un po' di quiete nella fede religiosa, di cui sono testimonianza la canzone a Cristo e la canzone alla Vergine.
L'abbraccio della religione come rifugio spirituale sembrano naturali e Isabella quasi ha un senso di pentimento per essere stata travolta dalle vanità delle cose terrene in contrasto con la bellezza divina; così scrive nell'ultimo sonetto:
"Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contro Fortuna ... "
"Or del suo cieco error l'alma si pente,
che in tal doti non scorge gloria alcuna,
e se dei beni suoi vive digiuna,
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente .... "

La religione finì per diventare una forma di affrancamento delle proprie frustrazioni.
La seconda parte del Canzoniere è ricca di riferimenti a DIO, ora accorati, ora più distaccati, ma sempre sinceri, definito "Bel tesoro eterno", "re del cielo", "bocca divina di perle e rubini", ecc.
Nella XIII canzone, che è l'ultimo componimento poetico del Canzoniere, ella scrive:

 Quel che gli giorni a dietro
noiava questa mia gravosa salma,
di star tra queste selve erme ed oscure
or sol diletta l'alma;
chè da Dio, sua mercé, tal grazia impetro,
che scorger ben mi fa le vie secure
di gire a lui fuor de le inique cure.
Or, rivolta la mente a la Reina
del Ciel, con vera altissima umiltade,
per le solinghe strade
senza intrico mortal l'alma camina
già verso il suo riposo,
che ad altra parte il pensier non inchina
fuggendo il tristo secol sì noioso,
lieta e contenta in questo bosco ombroso.

Una curiosità: leggende locali dicono che il fantasma della poetessa si aggira silenziosamente nel Castello.

                                  Elisabetta Antonangeli