Le rubriche

Presenze femminili nella Divina Commedia

di Gioia Guarducci

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 

I parte

Nella civiltà occidentale del Medioevo "la donna" non aveva uno specifico posto. L'uomo, come prima creatura più simile a Dio, possedeva una autorità "naturale" sulla moglie, la figlia, la sorella ed anche la madre. La Bibbia dice: "Dio fece l'uomo a sua immagine e somiglianza", la donna in fondo era nata soltanto dalla costola di Adamo e quindi doveva essere "naturalmente" meno perfetta e meno importante di lui!


Il campo d'azione di ogni donna era la casa, il suo dovere la procreazione. Generare buoni eredi era il compito affidatole; il cuore della casa in quei tempi era la grande camera nuziale, dove le donne passavano gran parte della giornata, lavorando d'ago o al telaio, dove concepivano e partorivano figli e dove infine morivano.
La fragilità e debolezza della donna "necessitavano" di sorveglianza e di protezione, prima da parte del padre e dei fratelli e poi del marito e della sua famiglia.


Le donne però nella vita pratica non restano subordinate completamente agli uomini, infatti lavorano nei campi o nelle botteghe artigiane con i mariti, filano, tessono, cuciono e ricamano, contribuendo così al benessere familiare.
Nei ceti più agiati, guidano la casa, comandano uno stuolo di servi ed attendono all'educazione dei figli. Come scrive Francesco da Barberino: la figlia di un cavaliere, di un giudice o di un medico dovrà filare o cucire "sì che poi che sarà con suo marito in casa, possa malinconia con ciò passare, oziosa non stare e anco in ciò alcuno servigio fare".


Molte famiglie povere mandavano a servizio le proprie figliole, per procurare loro un po' di dote e il corredo, ed anche le vedove, quando non riuscivano ad ottenere dagli eredi del marito quanto spettava loro, erano costrette a guadagnarsi da vivere filando o come domestiche in casa d'altri, tutte comunque venivano sospettate di cattiva condotta morale, di costumi sfrenati, data la nota "debolezza" della natura femminile!


Nella mentalità comune di quell'epoca, le donne sono ritenute tutte subdole, ingannatrici, licenziose e inaffidabili: "Tutti i grandi disonori, vergogne, peccati e spese s'acquistano per femmine" riporta infatti un testo antico.
La ribellione o l'insubordinazione della donna portava disordine e era soggetta alla sanzione della comunità ed anche delle leggi civili e religiose.
Abbiamo fin qui visto che la società medievale vedeva nella donna un personaggio gregario, cui negare ogni autonomia. La "condizione femminile" aveva riconoscimento solo nell'ambito del matrimonio o tra le mura di un convento.


In questo quadro poco idilliaco per le donne, mi sono chiesta quale considerazione avesse del genere femminino un grande poeta di quel tempo, Dante.
Dai miei ricordi scolastici della "Divina Commedia", non emergevano che pochi personaggi femminili, così, armata della lanterna di Diogene (volgendo al femminile il suo famoso detto "Cerco l'uomo"!), mi sono risolta ad intraprendere il noto viaggio ultraterreno in compagnia del Sommo Poeta.
La lettura delle tre cantiche è stata sì un po' lunga, ma tutto sommato piacevole, per quanto di donne non ne abbia poi trovate molte più di quanto mi ricordassi.
Vediamo ora di ripercorrere insieme le tappe di questo cammino.

 

Inferno

Nei trentatré canti dell'Inferno, “tra le genti dolorose c’hanno perduto il ben dell’intelletto” (Inf. III, vv.17-18) gli incontri con figure femminili sono veramente pochi, spesse volte invece il poeta cita personaggi che non sono presenti, ma solo ricordati nelle parole delle anime trapassate o come modelli esemplari.


Dentro l'immane voragine che si sprofonda nel mezzo dell’emisfero settentrionale, Dante immagina di trovare una miriade di anime dannate, tra cui molti personaggi ben conosciuti del suo tempo.


I primi spiriti femminili si trovano nel Limbo (IV Canto), luogo che accoglie non propriamente i dannati, ma solo coloro che non avendo conosciuto la vera fede sono stati esclusi dalla beatitudine eterna.
 Proprio nel Limbo Dante incontra Beatrice ( la fanciulla fiorentina amata dal poeta fin dall’infanzia e ispiratrice di tutte le sue poesie), che è scesa su invito di S. Lucia a sua volta inviata dalla Madonna, per incoraggiarlo ad intraprendere questo viaggio di redenzione.

“I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar desio;
Amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.

(Inf. II, vv.70-74)

Tra i giusti, che non conobbero Dio e non ricevettero il battesimo, ma che furono in vita esempi di virtù, ecco otto antiche donne (le prime cinque, però, sono solo figure della leggenda ).
Esse con altre anime, né tristi, né felici, abitano in un “nobile castello”, circondato da un “prato di fresca verdura” e “difeso intorno d' un bel fiumicello”, in “loco aperto, luminoso ed alto”. Dante non si attarda a parlare con loro, ma ne fa cenno nominandole ad una ad una :

“I’ vidi Elettra con molti compagni,
tra ‘quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea,
da l’altra parte, e vidi ‘l re Latino,
che con Lavinia sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia;
e solo in parte vidi il Saladino.

(Inf. V, vv.121-129)

 Elettra madre di Dardano, progenitrice della stirpe Troiana, di Enea e dei suoi discendenti,
 Camilla figlia del re dei Volsci, caduta nella guerra contro Enea
 Pentesilea regina delle Amazzoni, figlia di Ares (Marte), uccisa da Achille
 Lavinia figlia del re Latino, moglie di Enea e progenitrice dei Romani
 Lucrezia moglie di Collatino, suicidatasi dopo l’offesa fatta al suo onore da Sesto Tarquinio
 Iulia figlia di Giulio Cesare e sposa di Pompeo
 Marzia moglie di Catone l’Uticense
 Corneglia (Cornelia) madre dei Gracchi .

Di Marzia si parlerà ancora nel I canto del Purgatorio, quando Dante e Virgilio supplicano, in nome della sua cara sposa, appunto, il vecchio custode del secondo regno, Catone.

"ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni."

(Purg. I, vv.78-80)

Marzia sta tutta nella dolce espressione "occhi casti", e in quel tenero desiderio che il marito la consideri ancora sua.


Nel canto che segue Dante incontra i lussuriosi, coloro cioè che non riuscirono a frenare gli istinti carnali (II cerchio). Questi spiriti vengono trasportati qua e là da una incessante bufera:

"la bufera infernal che mai non resta
mena gli spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta”

(Inf. V, vv.31-33)

Questa loro pena segue la cosiddetta legge del “contrappasso”, una pena cioè esattamente uguale o contraria alla colpa commessa: i lussuriosi sono trascinati vorticosamente dalla bufera, così come in vita furono trascinati dalle passioni.
Il poeta chiede a Virgilio:

"…Maestro chi son quelle
genti, che l’aura nera sì gastiga?”

(Inf.. V, vv.50-51)


e Virgilio gli risponde, indicando tra mille e più ombre che passano anche le figure di alcune donne:

“ La prima di color di cui novelle
tu vuoi saper “ mi disse quegli allotta*,
“fu imperadrice di molte favelle.
a vizio di lussuria fu sì rotta
che libito fe’ lecito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa;
tenne la terra che ‘l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi il grande Achille
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano...”e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a
dito,
che amor di nostra vita dipartille.

(Inf. V, vv. 52-69)
*Allotta= allora

Didone, suicidatasi dopo essere stata abbandonata da Enea,
Cleopatra ("Cleopatràs lussuriosa"), portata alla guerra e al suicidio per amore di Antonio,
Elena, moglie infedele e causa della sanguinosa guerra di Troia,
Semiramide, lussuriosa e uccisa dal figlio incestuosamente amato.

Sono tutte eroine della tradizione classica, che vengono indicate come esempi di amore eccessivo o mal riposto.
Gli unici personaggi vissuti veramente che il poeta incontra sono Paolo e Francesca.
Dante rivolgendosi a Virgilio dice:

":……………..Poeta, volentieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno
e paion sì al vento esser leggieri”.

(Inf.,V,vv.73-74)

Chi parla con Dante, però, è solo Francesca, perché Paolo al suo fianco piange e tace.
Tutti la conosciamo: è Francesca da Rimini, o più precisamente Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, Guido il vecchio.
Ricordiamo qui che dal 1318 Dante fu ospite, durante il suo esilio da Firenze, di un nipote di quest'ultimo, Guido Novello da Polenta.
Francesca, giovanissima, costretta a sposare per ragioni politiche (1275) Gianciotto Malatesta, vecchio, zoppo e deforme
I due amanti, probabilmente nell’anno 1285, furono però sorpresi e uccisi dal marito–fratello offeso.
Perché Dante parla di questo episodio di cronaca nera del suo tempo?

Il fattaccio di cronaca nera, accaduto in una Corte famosa, aveva suscitato ai suoi tempi molto scalpore. Dante, però, non lo riporta per dovere di cronaca, ma solo perché spinto da un sentimento di partecipazione e pietà, (dirà infatti:- “Francesca i tuoi martiri a lacrimar mi fanno tristo e pio”).

Il poeta forse vede riflessi in Francesca se stesso e la fragilità di tutti gli esseri umani.
Riconosce colpevole la donna e giusta la condanna, ma se ne duole e prova dell’affetto per la sua tragica sorte, in fondo, come dice il Vangelo, “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”.

Ascoltiamo le parole di Francesca da Rimini:

“O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aer perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno:
se fosse amico il Re dell’universo
noi pregheremmo Lui della tua pace,
poi c’hai pietà del nostro amor perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che ‘l vento come fa si tace.
Siede la terra dove nata fui,
su la marina dove il Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, c’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte,
Caina attende chi a vita ci spense.”

(Inf. V, vv. 88-107)


Quest’ultime terzine sono famosissime e iniziano tutte con la parola “Amor”. Questo Amore rappresenta tutta l’esistenza di questa giovane donna e tutta la sua tragedia. Francesca sembra quasi voler allontanare da sé la responsabilità di un amore colpevole, indicando nell’Amore una ineluttabile forza, che agisce indipendentemente dalla volontà dell’individuo.
(“Amor ch’al cor gentil ...” è il concetto proprio del Dolce Stil Novo che ritroviamo anche in molti altri poeti.)
 

Più avanti troviamo citata la maga tessala Eritone, la quale dice Virgilio lo aveva una volta costretto, con un sortilegio, a lasciare il Limbo per scendere nel nono cerchio infernale per evocare uno spirito sulla terra.

Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritòn cruda
che richiamava l’ombre ai corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

(Inf. IX, vv.22-27)

Sempre in questo canto, Dante incontra le figure mitologiche delle tre Furie (Megera, Aletto e Tesifone) e della Gorgone.

"...tre Furie infernal di sangue tinte,
che membra femmine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avian per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte."

(Inf. IX, vv. 38-42)

e poi:

“Quest’è Megera dal sinistro canto,
quella che piange dal destro è Aletto,
Tesifòn è nel mezzo” e tacque a tanto.

(Inf. IX, vv. 46-48)

“Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ‘l Gorgòn si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso:”

(Inf. IX, vv. 55-57)

Anche solo con brevi cenni possiamo talora scorgere la simpatia del Poeta per alcune figure femminini che non si trovano all’Inferno, ma qui vengono solo ricordate, come ad esempio (Inf. XVI, v.37) l’ava del dannato Guido Guerra, “la buona Gualdrada”, (esempio di virtù domestiche e di onesti costumi nella Firenze del suo tempo) o Ghisolabella, sorella di Venedico Caccianemico, condannato tra i ruffiani,

“I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far le voglie del marchese,
come che suoni la sconcia novella.”

(Inf. XVIII, vv.55-57)

o pure ancora Isifile, fanciulla mitologica, ma viene soltanto ricordata quando Dante incontra Giasone (Iasòn)

"Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta."


(Inf. XVIII, vv.91-96)

Altro linguaggio Dante adopera però per peccatrici più spregevoli, vediamo infatti come ci presenta Taide, la prostituta, che troviamo nella seconda bolgia tra gli adulatori:

“di quella sozza e scapigliata fante *
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taide è, la puttana che rispuose.....”


( Inf., XVIII, vv.129-133)

* fante = fantesca; donna;

Come si vede, in questo caso, non c’è né commiserazione, né pietà alcuna! Taide è un personaggio classico, tratto dalla commedia “L’Eunuco” dello scrittore latino Terenzio.

Scendendo ancora più giù nell’imbuto infernale, nella quarta bolgia, tra gli indovini che vollero “veder troppo davante” ed ora “tacendo e lacrimando” procedono avanzando all’indietro col capo orrendamente torto, ci si presenta la maga Manto.
Manto, figlia dell’indovino tebano Tiresia, è la fondatrice della città di Mantova (= Mantua, città natale del poeta Virgilio).
Con questi versi, messi in bocca a Virgilio, viene raffigurata l’indovina :

“E quella che ricopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogni pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si pose là dove nacqu’io;”
( Inf., XX, vv.51-56)
“Qui passando la vergine cruda *
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì per fuggire ogni consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi ch’intorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fér la città sovra quell’ossa morte;
e per cole che ‘l loco prima elesse,
Mantua l’appellar sanz’altra sorte.”

( Inf., XX, vv.82-93)

* cruda: selvatica

Verso la fine del canto si incontrano ancora altre indovine o streghe, che vengono nominate di sfuggita con le seguenti parole:

"Vedi le triste che lasciaron l'ago,
la spola e 'l fuso e fecersi 'ndivine,
fecer malie con erbe e con imago" *

( Inf., XX, vv.121-123)

* ‘ndivine = indovine; imago = immagine

Nel XXX canto, Dante ricorda, in una similitudine tratta dal mito, una madre resa folle dal dolore: Ecuba, regina di Troia, che, dopo la caduta della città, vede l’uccisione della figlia Polissena e poi trova sulla riva del mare il corpo fatto a pezzi del figlio Polidoro. la leggenda tramandava che ella impazzisse e fosse tramutata in cagna.

"Ecuba trista, misera e cattiva *
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come un cane;
tanto il dolor le fé la mente torta".

(Inf, XXX, vv. 16-20)

* cattiva: sciagurata

Appartiene al mito anche un’altra figura femminile, che troviamo tra i dannati: Mirra.
Questa era una principessa, che per poter soddisfare la sua insana passione verso il proprio padre, Cinìra, re di Cipro, si finse un’altra donna. Il padre si accorse dell'inganno e disgustato cercò di ucciderla, ma ella riuscì a fuggire e fu poi mutata in pianta odorosa (la mirra, appunto).
Mirra è punita nel cerchio VIII, nella decima bolgia, tra i falsificatori di persona

"Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma …......”


(Inf., XXX,vv.37-41)

Ultima apparizione femminile dell’Inferno è un personaggio biblico la moglie di Putifarre, la quale accusò falsamente Giuseppe di aver tentato di violentarla, mentre era stato proprio lui a sfuggire ai suoi tentativi di adescamento.

Noi la incontriamo tra le anime degli accusatori fraudolenti, che giacciono in preda ad una grande febbre.

"Ed io a lui: “ chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ‘l verno,*
giacendo strette ai tuoi destri confini?”
“ Qui li trovai – e poi volta non dierno-“,
rispuose, “quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
L'una è la falsa che accusò Gioseppo...”

(Inf., XXX, vv.91-97)

*cioè che fumano per l’evaporazione del sudore della febbre come fumano le mani bagnate nelle gelide giornate invernali.


Dopo questo ultimo incontro fino al Purgatorio non troveremo più personaggi femminili.