Le rubriche
Presenze femminili nella Divina Commedia
di Gioia Guarducci
tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze
III parte
Paradiso
"…quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta a riguardare il sole"
( Pd. I,vv.46-47)
siamo nel Paradiso Terrestre, presso la sorgente dei fiumi Leté ed Eunoé.
Dante inizia ora il viaggio con Beatrice, che è forse la principale
figura femminile di questa terza cantica.. Già dal primo canto ella,
con atteggiamento umanamente materna, presenta al poeta una visione
dell’ordine universale e gli svela la graduazione della beatitudine
di cui godono le anime dei beati:
“Ond’ella appresso d’un pïo sospiro,
gli occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro*
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa somigliante:”
(Pd. I ,vv.100-105)
* deliro=delirante per la febbre
Di Beatrice, il poeta non descrive mai l’aspetto fisico, ma costantemente
parla del suo sguardo e del suo sorriso. Gli occhi sono, da sempre,
ritenuti lo specchio dell’anima, quindi Dante vuol significarci quanto
bella e luminosa sia questa donna.
Essa è l'incarnazione di una bellezza spirituale, pura e luminosa, destinata
a schiudere al poeta la visione abbagliante di Dio.
“.....................e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver’ me, sì lieta come bella,
“Drizza la mente in Dio, grata” -mi disse_
“che n’ha congiunti con la prima stella”.”
(Pd. II ,vv.26-30)
altrove dice “Ella sorrise alquanto...” (canto II v. 52) o “... sorridendo
ardea ne li occhi santi” (canto III, verso 24) o ancora, alla fine del
III canto, Beatrice appare tanto sfolgorante di luce che Dante non può
sostenerne la vista, tanto da non riuscire per un po’a fare la domanda
che intendeva rivolgerle:
“ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso* non sofferse
e ciò mi fece a dimandar più tardo.”
(Pd. III ,vv.128-130)
*viso = la vista
“Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni*
e quasi mi perdei con li occhi chiusi.”
(Pd. IV ,vv.139-142)
*mia virtute diè le reni = la mia vista volse le spalle, fuggì via
“e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria* l’uom felice:”
(Pd. VII ,vv.17-18)
*foco= fuoco; faria= farebbe
“Non le dispiacque, ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.” *
(Pd. X ,vv.61-63)
*Beatrice fu lieta e rise con gli occhi, così che la mente di Dante
si divise tra il pensiero di Dio e di lei.
“Ma Beatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.”*
(Pd.XIV,vv.79-81)
*Ma Beatrice mi apparve così bella che conviene lasciarne la descrizione
tra le cose vedute, che sfuggirono alla memoria.
altrove il poeta di lei rammenta ancora gli occhi:
“posponendo il piacer de li occhi belli
ne’ quai mirando mio disio ha posa.”
(Pd.XIV,vv. 130-131)
“Poscia rivolsi alla mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensa co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.”
(Pd. XV,vv.32-36)
“Onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossío
al primo fallo scritto di Ginevra.”*
(Pd. XVI, vv.13-15)
*Beatrice, ch’era un po’ discosta, sorride alla debolezza umana
del poeta, come la dama di compagnia della regina tossì assistendo al
primo colloquio segreto di Ginevra con Lancillotto.
“fin che ‘l piacere eterno, che diretto
raggiava in Beatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.*
Vincendo me col lume d’un sorriso,
ella mi disse:-“Volgiti e ascolta;
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso”. ”
(Pd. XVIII , vv. 16-21)
*finché l’eterna grazia di Dio, che raggiava in Beatrice,dagli occhi
(viso) di lei mi contentava con la sua luce riflessa (secondo aspetto).
“e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l’ultimo solere.”*
(Pd. XVIII , vv. 16-21)
*solere = aspetto, cioè: e vidi i suoi occhi tanto puri, tanto lieti,
che il suo aspetto vinceva in splendore gli altri soliti aspetti e anche
l’ultimo.
Man mano che Dante si avvicina all’ultimo cielo e a Dio, cresce anche
lo splendore di Beatrice, tanto che ella dice al poeta di non poter
più sorridere, perché lui non potrebbe sostenerne il fulgore: ne rimarrebbe
incenerito, come accadde a Semele, figlia del re Cadmo e madre del dio
Bacco, quando chiese a Giove, suo divino amante, di poterlo vedere in
tutta la sua luminosa maestà.
“Già eran gli occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento s’era tolto.
E quella non ridea; ma:“S’io ridessi-
mi cominciò- tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi;
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal potere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende*.”
(Pd. XXI, vv 1-12)
*sarebbe come una fronda squarciata dal fulmine (tuono)
Il XXII canto si conclude con un verso che sottolinea ancora la bellezza
degli occhi di Beatrice:
“poscia rivolsi li occhi a li occhi belli”.
Nel canto successivo, all’annunciarsi delle schiere del trionfo di Cristo,
ella trasfigura nella persona e Dante la descrive così:
“Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien senza costrutto:”*
(Pd. XXIII, vv 1-12)
*pariemi = mi pareva, che passarmen convien senza costrutto = che
mi conviene passare avanti senza parlarne, per l’impossibilita di descriverlo.
Dopo che ha acquistato nuova forza per aver visto le anime dei beati
illuminate dalla presenza spendente di Cristo, il poeta viene invitato
dalla sua donna (“Oh Beatrïce, dolce guida e cara!”) a guardarla in
viso:
“Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se’ fatto a sostener lo riso mio”.
(Pd. XXIII, vv 46-48)
Dante dice però di non essere in grado di descrivere neppure la millesima
parte della bellezza di quel sorriso di Beatrice.
Ancora avanti nel canto XXV, v.28, si dice: “Ridendo allora Beatrice
disse.”
Che in questa figura femminile si debba vedere l’allegoria della Teologia,
è accettato da tutti, ma certo Beatrice ha in sé un doppio aspetto,
perché è impossibile non vedere come Dante veda in lei l’immagine della
fanciulla amata, tanto che talvolta usa espressioni della poesia cortese
del suo tempo:
“La mente innamorata che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture,
tutte adunate, parrebbe nïente
ver’ lo piacer divin che mi refulse,
quando mi volsi al suo viso ridente.”*
(Pd. XXVII, vv.88-96)
*donnea = vagheggiava;
se natura......= se la natura o l’arte fecero mai ii tanto belle da
essere seca (pastura)da prender gli occhi per conquistare la mente di
chi guarda, tutte queste belle immagini non sarebbero niente a paragone
del piacere divino che splendette i Beatrice, quando mi rivolsi al suo
viso ridente.
“incominciò, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire”
(Pd. XXVII, vv.103-104)
Dante si riferisce a Beatrice (v.3, canto XXVIII) le parole:
“Quella che imparadisa* la mia mente”
* manda in paradiso
“così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.”*
(Pd. XXVIII, vv.10-12)
*con quegli occhi belli Amore fece una corda per catturarmi.
Giunti all’Empireo, cioè l’ultimo cielo, la bellezza di Beatrice diviene
così sovrumana che il poeta si dichiara incapace di descriverla( canto
XXX versi 1-33).
Egli ricorda come dal primo giorno in cui vide Beatrice, a solo nove
anni (come racconta nella Vita Nova), non gli è mai stato precluso di
proseguire nel suo canto, ma ora bisogna che desista dallo scrivere
seguendo la nuova bellezza di lei, come un artista che è giunto al limite
delle sue possibilità espressive.
“Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;*
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascun artista.
(Pd. XXX, vv.28-33)
*preciso = precluso
Ma lasciamo ora la figura di Beatrice e proseguiamo nella lettura degli
altri canti del Paradiso.
Nel III canto, Dante ha la prima visione di spiriti beati: sono i volti
di varie anime, trasparenti come immagini riflesse sull'acqua. Questi
spiriti in vita non mantennero fede sino in fondo ai voti fatti, e per
questo sono i più distanti da Dio.
Tra essi è Piccarda, come era già stato rivelato a Dante dal fratello
Forese Donati con le parole:
"La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona"
(Purg. XXIV, vv. 13-15)
Piccarda è figlia di Simone Donati, sorella appunto di Forese e di Corso,
odiato capo dei Guelfi di parte Nera.
Entrata giovanissima nel monastero di Santa Chiara a Firenze, fu rapita
dal convento dal fratello Corso, che per ragioni politiche la dette
in moglie a Rossellino della Tosa, facinoroso seguace dei Neri. (Alcuni
commentatori antichi dicono che essa si ammalò e morì appena tolta dal
convento.)
Come Forese, anche Piccarda ha conosciuto Dante da giovane, vediamo
infatti che gli dice:
"I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella,
ma riconoscerai ch'io son Piccarda,
che posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.”*
( Pd. III, vv. 47-49)
*spera più tarda = nel cielo più lento
Il poeta ce la raffigura bella e ardente di amore spirituale :
"Con quelle altr'ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta
ch' arder parea d'amor nel primo foco…"
(Pd. III, vv.67-69)
Ella parla a Dante di sé e dice che da giovinetta era entrata nell'ordine
fondato da Santa Chiara, di cui dice:
" perfetta vita e alto merto inciela
donna più su - mi disse - a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,"
(Pd. III, vv. 97-99)
* la vita perfetta e l'alto merito collocano più in su nei cieli
una donna, secondo la cui regola si prendono giù nel vostro mondo abiti
religiosi e velo monacale.
poi prosegue narrando di sé:
“Dal mondo per seguirla*, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta*.
Uomini poi a mal più ch’a ben usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi"
(Pd. III, vv. 103-108)
*per seguirla = per seguire la vita monacale; la sua setta = il
suo ordine religioso;
Iddio si sa qual poi mia vita fusi = Dio sa quale fu poi la mia vita
.
Qui pudicamente Piccarda tace, ma lascia ad intendere che quel matrimonio,
impostole con la violenza, non fu felice. Successivamente indica al
poeta un'altra figura luminosa, anch'essa vittima della violenza maschile:
"Sorella fu e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest'è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave*
generò ‘l terzo e l’ultima speranza”.
(Pd. III, vv. 113-120)
*non fu dal vel del cor già mai disciolta = rimase nel suo cuore
sempre fedele al velo, cioè ai voti fatti.
*del secondo vento di Soave... = dal secondo potente re di Svevia, Enrico
VI, generò il terzo e ultimo imperatore, Federico II.
Si parla di Costanza d'Altavilla, ultima figlia di Ruggero II, re di
Sicilia, la quale si diceva fosse stata tolta suo malgrado, per ragion
di stato, dal convento e fatta sposare a 31 anni (nel 1185) con Enrico
VI di Svevia, figlio del Barbarossa.
In effetti una donna che arrivasse nubile a quell'età era per quei tempi
evento raro ed improbabile; per questo forse era nata la credenza che
fosse stata rapita dopo aver preso il velo. Da questo matrimonio nove
anni più tardi nacque Federico II, il futuro imperatore.
Rimasta vedova all'età di 43 anni, Costanza governò con prudenza e saggezza
il regno, fino alla morte avvenuta nell'anno successivo (1198).
Terminato di parlare Piccarda intona il canto "Ave Maria"
e svanisce d'un tratto così come un oggetto pesante scompare nell'acqua
profonda.
Qua e là nei canti successivi vengono brevemente ricordate antiche eroine,
come le Sabine e Lucrezia, citate per indicare sinteticamente il periodo
storico dei sette re di Roma:
“E sai ch’el fé dal mal delle Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.”*
(Pd.VI, vv.40-42)
*Tu sai cosa fece, durante sette regni, dal ratto delle Sabine fino
all’offesa che Lucrezia subì da parte di Tarquinio il Superbo, vincendo
i popoli confinanti
o come Cleopatra:
“Piangene ancor la trista Cleopatra,
che fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra*.”
(Pd.VI,vv.76-78)
*subitanea e atroce
Nel terzo cielo, quello del pianeta Venere, che irradia sugli uomini
l'amore, secondo la credenza antica, troviamo due personaggi femminili,
che in vita si lasciarono trascinare da amori illeciti e sconsiderati,
ma poi, pentitesi, compirono gesta di carità eroica per amore verso
Dio, tanto da meritare il Paradiso.
La prima anima è quella di Cunizza da Romano (1198-1279), sorella di
Ezzelino, crudele signore della Marca trevigiana. Ella ebbe molti mariti
ed amanti, tra cui il mantovano Sordello, uno dei più famosi trovatori
del XIII secolo :
"Cunizza fui chiamata e qui refulgo,
perché mi vinse il lume d'esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;" *
(Pd. IX, vv.32-36)
* lietamente mi perdono per aver subito la causa della mia sorte,cioè
l’influsso del pianeta Veneree non me ne dolgo .
Un documento del 1265 riporta che, passata la giovinezza, visse a Firenze,
dove morì, dopo aver dedicato gli ultimi anni della vita ad opere di
misericordia verso i bisognosi.
Dante da giovane probabilmente la conobbe e rimase colpito dal suo stupefacente
cambiamento di costumi, dal passaggio da una vita di piacere ad una
di religiosa penitenza.
Il secondo spirito che ci viene indicato è quello di Raab, la meretrice
cananea, che, come dicono le Sacre Scritture, meritò la salvezza per
la sua grande fede e per aver favorito la causa del popolo ebraico (
Hebr. XI 31; Isac. II, 25):
“Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.*
Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr’ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.”*
(Pd.IX,vv.112-117)
*Lumera = lume; mera = pura; a nostro.... sigilla = ella è congiunta
la nostro coro, che da lei riceve il massimo sigillo
Raab, infatti, durante l'assedio della città di Gerico, aveva nascosto
nella sua casa i due esploratori inviati da Giosuè, sottraendoli alle
ricerche del re e, nel ritorno al loro accampamento, aiutandoli a ripassare
indenni il fiume. Dopo la vittoria di Giosuè, la casa di Raab fu risparmiata
dalla distruzione ed ella fu accolta nel popolo di Israele.
Nel canto XV, dalla bocca di Cacciaguida, avo di Dante, sentiamo un
elogio della Firenze antica, città in cui i cittadini anche quelli più
in vista e le loro mogli si accontentavano di poco.
“Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora terza e nona,*
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate*, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo ancor paura
la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote
Non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vote*;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote."
(Pd. XV vv. 97-108)
*terza e nona = la chiesa di Badia, costruita presso la prima cerchia
di mura, suonava ancora ai tempi di Dante l’ora terza (le nove di mattina)
e l’ora nona (le tre del pomeriggio).
*contigiate = ornate di ricami.
*vote = vuote, prive di prole, per i corrotti costumi dei coniugi.
Le donne in particolare non andavano vestite riccamente,non si agghindavano
e non si mettevano belletti, così che i mariti vedevano (vv113-114):
"…….e venir da lo specchio
la donna sua sanza 'l viso dipinto"
“e le sue donne al fuso e al pennacchio"(v117)
non essendoci, allora, le discordie civili, le donne erano sicure di
morire là dove erano nate e di non diventare, con i mariti esiliati
in terra di Francia, come oggi si direbbe, "vedove bianche".
Ogni donna si preoccupava di sorvegliare ed allevare i suoi figli, raccontando,
mentre filava, le belle favole antiche sulle origini della città.
In quei tempi antichi Cianghella, donna arrogante e corrotta, figlia
del fiorentino Arrigo della Tosa, amante del lusso sfrenato,(morta intorno
al 1330), sarebbe stata oggetto di stupore, così come al tempo di Dante
sarebbe parsa strana la figura di Cornelia, la virtuosa madre dei Gracchi
(Corniglia).
“Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepoltura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.”
L’una vagheggiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
l’ltra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
D’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Sa ria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Saltarello,
qual or saria Cincínnato e Corniglia.
(Pd. XV vv.118-129)
Attraverso le parole del suo avo, Dante trova modo di sferzare la Firenze
“nuova”, in cui, a differenza del buon tempo antico, si dà più importanza
allo sfarzo dei vestiti e degli ornamenti, che alla persona stessa,
in cui anche la nascita di una figlia spaventa il padre,(a causa del
tempo troppo precoce del matrimonio e della misura eccessiva della dote)
e in cui infine le case, troppo grandi, sono vuote, prive di figli,
per la lussuria e la depravazione dei costumi (Sardanapalo era infatti
simbolo di sregolatezza e lussuria).
Le donne, sembra dire il poeta, hanno avuto la loro buona parte di colpa
nella decadenza civile e morale della città!
Nel canto XXXI Dante arriva a vedere la "rosa mistica", cioè
tutte le anime beate sui loro seggi. A questo punto Beatrice scompare,
lasciando al suo fianco un vecchio venerando, San Bernardo, a cui il
poeta chiede meravigliato “Ov’è ella?” e il santo gliela indica nel
terzo giro della candida rosa, dove la donna è posta per i suoi meriti.
Nella parte più elevata della rosa, circonfusa di luce sta la Vergine
Maria, nel momento del suo trionfo e della sua incoronazione: Sotto
di Lei siedono di gradino in gradino altre donne beate.
S. Bernardo gliele enumera una ad una, esse sono Eva,.
“La piaga che Maria richiuse e unse,
quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
è colei che l’aperse e che la punse.”*
(Pd. XXXII, vv.4-6)
*La ferita (il peccato originale) che Maria medicò e richiuse, l’aprì
e la ferì quella tanto bella che sta ai suoi piedi.
Rachele, Beatrice, Sara, Rebecca, Giuditta, Ruth e poi altre eroine
Ebree, di cui non fa il nome.
“Nell’ordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachele di sotto da costei
con Beatrice, sì come tu vedi.
Sara e Rebecca, Iudit e colei
che fu bisava* al cantor che per doglia
del fallo disse “Miserere mei”,
(Pd. XXXII, vv.7-12)
*bisava = Ruth bisavola di David, che compose il Miserere dopo l’adulterio
con Betsabea e l’omicidio del marito di lei.
Dall’altra parte della Rosa, di fronte a San Pietro sta Anna, madre
della Madonna, e davanti ad Adamo siede Lucia, la martire siracusana,
colei che mandò Beatrice in soccorso di Dante (Inf. I, 61).
“Di contr’a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
e contro al maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna
quando chinavi, a rovinar,le ciglia.”
(Pd. XXXII, vv.133-138)
L'ultimo canto del Paradiso, infine, si apre con l’inno di lode di San
Bernardo alla Vergine Maria (Pd. XXXIII, vv.1-39) I questi versi c’è
l'esaltazione della bontà e dell'amore di cui fu ricolma questa donna
assolutamente eccezionale e non simile a nessun altra. Troviamo nel
poeta un sentimento tutto cristiano, uno slancio di fede, visione mistica
della Madre del Salvatore, che lo fa prorompere in una esaltazione che
trascende l'immagine della donna comune.
*****
Dante, come abbiamo letto, non ha posto tra i dannati più sordidi nessuna
donna, ad esclusione di personaggi tratti dal mito o dalla leggenda,
anzi l'unica figura dell'Inferno, che davvero ci muove a pietà e commozione
è proprio una donna: Francesca da Rimini.
Nel Purgatorio, la dolente figura di Pia dei Tolomei e della puntigliosa
Sapìa sono tratteggiate con grande attenzione e sapienza psicologica,
si avverte bene tra le righe che il Poeta partecipa alla loro vicenda
umana.
Nel Paradiso, dove il mondo materiale è dimenticato e dove tutto è etereo,
la fiorentina Piccarda Donati e la trevigiana Cunizza da Romano, pur
nella loro intensa spiritualità, sono ancora donne veramente reali,
rappresentate cioè con tutte quelle doti di gentilezza, di dolcezza
e di calore umano, comunemente attribuite al genere femminile.
Riguardo Matelda o Beatrice, il discorso da fare è diverso, esse infatti,
pur se descritte nelle sembianze di fanciulle sorridenti e belle, sono
quasi figure mistiche, simboli di un processo interiore di elevazione
spirituale, in cui riconosciamo l'immagine della "donna angelicata"
del Dolce Stil Novo.
I personaggi femminili che Dante dice di aver incontrato nel suo viaggio
ultraterreno sono tutti storicamente esistiti. Con loro si è fermato
a parlare ed ha voluto a metterne in evidenza i affetti umani, le passioni,
i sentimenti dolenti.
Ha così dato un ritratto vivo, non stereotipato delle donne, in cui
possiamo avvertire una carica di simpatia.. Egli,quasi commosso dalla
loro fragilità umana, sembra assolverle tutte.
Per concludere si può dire che Dante, pure se talvolta si è scagliato
contro le donne, per la smodatezza (o forse modernità?) dei loro costumi,
ha saputo nello stesso tempo tesserne le lodi, sottolineandone in particolare
la sfera del sentimento, la delicatezza e l'intensità degli affetti,
ed ha creato per noi figure indimenticabili, piene di fascino e sensibilità.
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