Le rubriche

UN POETA NEL CUORE
Leggere per non dimenticare

di Gioia Guarducci

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 

CAMILLO SBARBARO

Camillo Sbarbaro nacque a Santa Margherita Ligure nel 1888 e morì a Savona nell'ottobre del 1967.

La madre, ammalata di tubercolosi venne a mancare molto presto, così nel 1893 Camillo e la sorellina Clelia furono affidati alla zia Maria, detta Benedetta, cui il poeta dedicò le poesie di Rimanenze. Nell'anno seguente la famiglia si trasferì nella cittadina di Varazze dove Camillo frequentò le scuole elementari e il ginnasio. Dal 1904 al 1908 proseguì gli studi al Liceo di Savona. Dopo il diploma di licenza si impiegò in un'industria siderurgica di quella città.

Nel 1911 pubblicò la sua prima raccolta di poesie dal titolo Resine, e in quello stesso anno si trasferì a Genova. La pubblicazione del secondo libro di poesie Pianissimo è del 1914. In occasione della pubblicazione di quest'opera si recò a Firenze dove fece la conoscenza di Ardengo Soffici, Dino Campana, Ottone Rosai, Giovanni Papini e di altri personaggi della cultura che si incontravano al Caffè letterario delle Giubbe Rosse.

Allo scoppio della prima guerra mondiale Sbarbaro lasciò l'impiego e si arruolò come volontario nella Croce Rossa; nel 1917 venne richiamato alle armi e successivamente partì per il fronte. In questo periodo scrisse Trucioli (prosa), pubblicato nel 1920 a Firenze dall'editore Vallecchi. Finita la guerra nel 1919 la rivista Riviera Ligure lo portò all'attenzione del pubblico dedicandogli tutto il suo ultimo fascicolo.

A Genova negli anni successivi iniziò a frequentare il gruppo di intellettuali riuniti intorno al poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, mentre, lasciato il precedente impiego, si guadagnava da vivere dando ripetizioni di latino e greco. Fu un grande appassionato di botanica e nei suoi Erbari raccolse una notevole collezione di muschi e licheni.

Dopo aver conosciuto Eugenio Montale, che per primo aveva commentato le prose di Trucioli, nel 1921 cominciò a collaborare alla Gazzetta di Genova. Nello stesso anno ebbe l'incarico di insegnamento per greco e latino presso un Istituto di Gesuiti, ma presto dovette abbandonare la cattedra per non aver accettato di iscriversi al partito Fascista. Nel 1928 pubblicò il volume Liquidazione (prose scritte negli immediati anni del dopoguerra) e in questo stesso anno vendette a Stoccolma il suo primo Erbario. (Una importante collezione di licheni è stata donata da Camillo Sbarbaro al Museo di Storia Naturale di Genova).

Negli anni successivi compì numerosi viaggi all'estero. Nel 1933 iniziò la collaborazione con la Gazzetta del Popolo di Torino. Il suo libro Calcomanie, scritto in quei mesi, a causa della censura fu pubblicato solo nel 1940. Nel 1941 lo scrittore si spostò da Genova, appena bombardata, a Spotorno, dove rimase fino al 1945. In quel periodo si dedicò alla traduzione di autori classici greci e francesi, mentre si ampliava la sua presenza in numerose riviste letterarie. Nel 1949 gli venne assegnato il Premio Letterario Saint Vincent e nel 1955 il Premio Etna-Taormina .

Di lui ricordiamo: del 1955 Rimanenze (che raccoglie le sue ultime poesie), del 1956 Fochi fatui (prosa), del 1958 Primizie (poesia) e del 1966 Cartoline in franchigia (prosa).

La poesia di Camillo Sbarbaro ha toni che lo accostano sia alla sensibilità leopardiana che ai migliori poeti crepuscolari, ma suo maestro ideale è forse Montale, che proprio a Sbarbaro dedicò questi versi:

Epigramma II

Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d'un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.

(da Ossi di seppia , 1925)

Sbarbaro sceglie di esprimersi in endecasillabi sciolti, rifugge dalle ardite metafore dei suoi contemporanei e si esprime con scarna linearità. La natura e le sue molteplici manifestazioni furono oggetto di acuta osservazione, la terra di Liguria, tanto amata dal poeta, è rappresentata con tocco leggero, privo di retorica, ma essenziale e suggestivo.

Chiudiamo queste brevi note riportando le parole che di lui scrisse Montale: «La parola ha nello Sbarbaro le stimmate della propria genesi dolorosa e necessaria. E dacché i poeti si riconoscono da quest'ultimo comune carattere, che manca alla quasi universalità degli scrittori, è lo Sbarbaro non pure artista, ma poeta ».

 

ALCUNE POESIE DI CAMILLO SBARBARO

Io che come un sonnambulo cammino
per le mie trite vie quotidiane,
vedendoti dinanzi a me trasalgo.
Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
Regolo il mio passo
io subito destato dal mio sonno
sul tuo ch'è come una sapiente musica.
E possibilità d'amore e gloria
mi s'affacciano al cuore e me lo gonfiano.
Pei riccioletti folli d'una nuca
per l'ala d'un cappello io posso ancora
alleggerirmi della mia tristezza.
Io sono ancora giovane, inesperto
col cuore pronto a tutte le follie.

Una luce si fa nel dormiveglia.
Tutto è sospeso come in un'attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.

***

Ovunque fui
nelle contrade grasse dove l'erba
simula il mare; nelle dolci terre
dove si sfa di tenerezza il cielo
su gli attoniti occhi dei canali
e van femmine molli bilanciando
secchi d'oro sull'omero - dovunque,
mi trapassò di gioia il tuo pensato
aspetto.

 ***

Talor, mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei occhi chiari il mondo
ove tutto m'appar come fraterno,
l'aria la luce il fil d'erba l'insetto,
un improvviso gelo al cor mi coglie.

Un cieco mi par d'essere, seduto
sopra la sponda d'un immenso fiume.
Scorrono sotto l'acque vorticose,
ma non le vede lui: il poco sole
ei si prende beato. E se gli giunge
talora mormorio d'acque, lo crede
ronzio d'orecchi illusi.

Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un'altra rasentarne
come nel sonno, e che quel sonno sia
la mia vita presente.

Come uno smarrimento allor mi coglie,
uno sgomento pueril.
Mi seggo
tutto solo sul ciglio della strada,
guardo il misero mio angusto mondo
e carezzo con man che trema l'erba.

 ***

Scarsa lingua di terra che orla il mare,
chiude la schiena arida dei monti;
scavata da improvvisi fiumi; morsa
dal sale come anello d'ancoraggio;
percossa dalla fersa; combattuta
dai venti che ti recano dal largo
l'alghe e le procellarie
- ara di pietra sei, tra cielo e mare
levata, dove brucia la canicola
aromi di selvagge erbe.
Liguria,
l'immagine di te sempre nel cuore,
mia terra, porterò, come chi parte
il rozzo scapolare che gli appese
lagrimando la madre.

***

La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada; ché non sa
che mai bene più grande non avrà
di quel po' d'oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.

A noi che non abbiamo
altra felicità che di parola,
e non l'acceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.

***

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
E subito la scala tolta in spalla
di casa uscisti e l'appoggiavi al muro.
Noi piccoli dai vetri si guardava.
E di quell'altra volta mi ricordo
che la sorella, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
t'eri visto rincorrere la tua
piccola figlia e, tutta spaventata,
tu vacillando l'attiravi al petto
e con carezze la ricoveravi
tra le tue braccia come per difenderla
da quel cattivo ch'eri tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre...