Le rubriche
Il Dolce Stile Eterno nella poesia italiana del XX secolo
di Dalmazio Masini
tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze
III parte
ALFONSO GATTO, nato a Salerno nel 1909 e morto in un incidente stradale in provincia di Grosseto nel
1976, è forse l'autore che più di ogni altro, in pieno Novecento, è riuscito a conciliare i concetti di
"opera in versi" e "novecentismo". Fu infatti sempre nel drappello delle avanguardie
post-futuriste e addirittura, con Pratolini, a fine anni '30 a Firenze dirigeva CAMPO DI MARTE, la rivista che fu
tra le principali tribune dell'ermetismo. Ed è considerato un caposcuola dell'ermetismo puro, quell'ermetismo che
riesce a catturare il lettore col fascino dilagante della magia musicale dal quale non è facile distogliersi. Così
uscendo e rientrando nelle sue melodie anche la iniziale oscurità del messaggio comincia a sciogliersi,
lasciandosi decifrare per condurci al grande cuore del poeta. Qui direi che sta la grandezza di Alfonso Gatto:
la sua capacità di proseguire sul doppio binario della forma poetica tradizionale e della innovazione linguistica
con uno stupefacente equilibrio capace di assommare i più diversi consensi.
Ma se osserviamo più da vicino il suo itinerario poetico vediamo che Gatto è stato veramente il precursore di
molte delle nostre idee. Solo nelle pubblicazioni giovanili la, da noi chiamata, "poesia in prosa"
ha una certa consistenza, poi la voglia di far cantare i versi prende sempre più il sopravvento, e i versi stessi
da una prevalenza di misure brevi cominciano a distendersi fino a ritrovare la classicità dell'endecasillabo, che
addirittura spadroneggia nell'ultima sua raccolta "Rime di viaggio per la terra dipinta" 1968-1969.
(In realtà uscì nel 1977, postuma, "Desidenze" per la quale però vale in gran parte quanto detto,
mentre nella raccolta "Poesie d'amore" del 1973 sono presenti testi di varie epoche).
Per sintetizzare quanto detto ho scelto, di Gatto, 3 poesie, 2 molto note ed una invece mai riportata in
antologie e quasi del tutto trascurata dalla critica. La prima "Povertà come la sera" è del periodo
fiorentino della seconda metà degli anni '30 e qualcuno la definì "la più bella poesia rimata del nostro
Novecento". La seconda "Dorma col suo sorriso" è di inizio anni '40 ed è pochissimo nota
perché appare solo nella Terza edizione ampliata delle poesie di Gatto edita da Vallecchi nel 1943. La terza
infine, "La donna di Rialto" è espressione della piena maturità del poeta (intorno al 1964) spesso
citata e sicuramente destinata a restare tra le nostre opere del Novecento che continueranno a vivere anche
negli anni Duemila.
POVERTA' COME LA SERA
Torna povera d'amore
nel ricordo l'erba e a sera
reca solo quest'odore
della morta primavera,
questi prati freschi al velo
della corsa che negli occhi
dei bambini è quasi il cielo,
questo sogno che non tocchi
liberandolo in segreto
come l'aria dei tuoi colli.
Resti limpida se lieto
di tristezza e d'aria volli
povertà come la sera
per spogliarti sino al volto,
sino agli occhi in cui dispera
questa luce, se t'ascolto
vana ai limiti del cielo
nel clamore aperta e rosa
come nube che al suo gelo
torna vaga e si riposa.
Resti povera d'oblio
lungo il prato che al suo muro
di celeste imbianca, addio,
nel lasciarti anche il futuro
smemorata voce annotta.
DORMA COL SUO SORRISO
Come la morte, bianca,
o sposa dell'aurora
tornavi dalla stanca
città ed era l'ora
profonda del tuo treno
sommesso al cielo spoglio,
al povero sereno.
Partivi, ed al convoglio.
azzurro, alla tua veste
viola, un agro gelo
rimase ed il funesto
riverbero del cielo.
Io ti vidi sparire,
e fredde le tue mani
rimasero a seguire
nel sonno quei lontani
riverberi del mondo,
i pallidi tuoi fiori
di nuvole, il profondo
dirupo dei colori.
E t'era bacio l'orma
della notte sul viso,
ed io dicevo "dorma,
dorma col suo sorriso
e la risvegli il mare,
la sua città di festa".
Così parve poggiare
sul braccio la tua testa.
e, di profilo intorno
schiudere ai monti il velo
intrepido del giorno
e trovar l'alba in cielo.
LA DONNA DI RIALTO
E' di Venezia il grigio il verde asilo
D'un muro quando a raffiche s'avviva
il cielo della pioggia e corre un filo
di nero al sale dei palazzi. Stiva
dentro i canali case tetti quadri
d'un altro cielo il fòndaco remoto.
I poveri furtivi come ladri
stretti alla giacca fissano l'ignoto.
Da svolta a svolta s'incanala l'eco
D'una barca che appare e spare dietro
il suo richiamo, scivola di sbieco
in quel chiaro annerendo. Spalle al vetro
della bottega, tenta sulle corde
la sua voce d'addio per tutti i morti
un cieco solo. La laguna morde
i cimiteri chiusi, i fondi, gli orti
col suo cupo mareggio, ad ogni flutto
ch'urta il gradino. Il cieco chiede il volo
di un'ombra, si ritrova nel costrutto
delle sue mani intente a dirlo solo.
Ora Venezia è una ghirlanda accesa
dai suoi mesti chiarori, la laguna
scivola al liscio buia ma sottesa
dalle muraglie d'una grande luna.
Tutti i fiori dei brividi sull'uscio
di questa notte che precede il vento.
E la donna che invita, sul peluscio
del suo bàvero nero affonda il volto
sino agli occhi di bistro perché porti
notizia ai morti il suo novembre, l'ora
che al deserto dell'anima più forti
incide i suoi silenzi, questa bora
tagliente di vetrini. Esulta il cielo
accanendosi in sé come lo smalto
del suo colore, fuma dentro il pelo
del bàvero la donna di Rialto.
Alfonso Gatto
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