Le rubriche

Piccola Storia della Poesia Italiana

di Mario Macioce

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 

IV parte

FRANCESCO PETRARCA

Se Francesco può ancora vedere come vanno le cose del mondo, forse sarà un po' deluso.
Ha scritto moltissimo, in volgare e in latino, e la sua opera più amata e sofferta, quella cui pensava di affidare la sua gloria futura, è appunto un poema in versi latini, "Africa", sulla II guerra punica e su Scipione Africano. Sonetti e altre poesie in italiano erano per lui delle bagatelle, un divertimento e uno sfogo. E invece queste sono famose, mentre le sue opere impegnate -ahilui- non se le fila nessuno!

Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304, (Dante era già quasi quarantenne) da genitori fiorentini in esilio e visse in Toscana, poi a lungo in Francia, quindi di nuovo in Italia, in varie città del nord; si ritirò infine ad Arquà, presso Padova, dove, a settant' anni, morì.

La sua opera più famosa è il Canzoniere, che comprende 366 poesie, per lo più sonetti, con alcune canzoni, sestine, ballate e madrigali.
Il sonetto, come ognuno sa (o dovrebbe), è quella breve composizione di due quartine e due terzine, con ben determinate rime, lanciata da Iacopo da Lentini nel 1200 (vedi prima scheda) e molto usata dai poeti di tutti i secoli.
Molti dei 317 sonetti del Canzoniere sono dedicati a Madonna Laura, che è per Francesco quello che Beatrice è per Dante; anche Laura muore prematuramente, nella peste del 1348.

In questo primo esempio è particolarmente evidente il gusto di Petrarca per i giochi di parole e per le rime "equivoche", cioè fatte da parole apparentemente identiche, ma con significato diverso. Per esempio "luce" è usata successivamente nel senso di: risplende (verbo) - luce, splendore - vita - vista.

Quand' io son tutto volto in quella parte
ove 'l bel viso di Madonna luce;
e m' è rimasta nel pensier la luce
che m'arde e strugge dentro a parte a parte;

i' che temo del cor che mi si parte,
e veggio presso il fin della mia luce,
vommene in guisa d' orbo senza luce,
che non sa 've si vada, e pur si parte.

Così davanti ai colpi della Morte
fuggo; ma non si ratto che 'l desio
meco non venga, come venir sole.

Tacito vo; che le parole morte
farian pianger la gente; ed i' desio
che le lagrime mie si spargan sole.

Quando sono tutto rivolto (col pensiero) a quella parte dove risplende il bel viso di Madonna (Laura, non Ciccone, anche perché di questa tutto si può dire, ma non che il suo viso risplenda) e m' è rimasta nel pensiero la luce che mi arde e mi strugge dentro da parte a parte; io che temo che il cuore mi si spezzi e vedo vicino la fine della mia vita, me ne vado come un cieco senza vista, che non sa dove sta andando, eppure va. Così fuggo davanti ai colpi della Morte; ma non così veloce che il desiderio (di morte) non venga con me, come suole fare. Vado silenzioso; perché le parole disperate farebbero piangere la gente; ed io desidero che le mie lacrime si spargano da sole.

 

Più famoso è questo sonetto in cui è presente, come in molte altre poesie del Canzoniere, un gioco di parole, basato sul nome della donna amata (l' aura - Laura).

Erano i capei d' oro a l' aura sparsi,
che 'n mille dolci nodi li avvolgea;
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi;

e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l' esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subit' arsi?

Non era l' andar suo cosa mortale,
ma d' angelica forma; e le parole
sonavan altro che pur voce umana.

Uno spirto celeste un vivo sole
fu quel ch' i' vidi; e se non fosse or tale
piaga per allentar d' arco non sana.

Erano sparsi all' aria i capelli d' oro, che lei avvolgeva in mille dolci nodi; e ardeva oltre misura la bella luce di quegli occhi che ora ne sono così poveri (per il passare degli anni o per malattia); e il viso mi pareva tingersi, non so se era vero o un' illusione, di colori che suscitano tenerezza: io che avevo nel petto l'esca amorosa (negli accendini dell' epoca, l'esca era una sostanza che prendeva fuoco con facilità, per una semplice scintilla), qual meraviglia se mi accesi subito? La sua andatura non era cosa mortale, ma degna di un angelo; e le parole suonavano diversamente che una semplice voce umana. Uno spirito celeste, un vivo sole fu quello che io vidi; e se ora non fosse più così, la ferita non guarisce perché si allenta l' arco (che l' ha provocata).

 

Vediamo ora un esempio di canzone (in parte, perché piuttosto lunga).
La canzone petrarchesca, formata da endecasillabi e settenari, è una composizione molto complessa, con un complicato gioco di strofe, versi e rime. Per questo nel tempo è caduta in disuso. La canzone di Leopardi per esempio è molto più semplice e sciolta e con poche rime.

Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose1 colei che sola a me par donna;2
gentil ramo, ove piacque
(con sospir mi rimembra3)
a lei di fare al bel fianco colonna;4
erba e fior, che la gonna
leggiadra ricoverse
con l' angelico seno;5
aer sacro sereno,
ov' amor co' begli occhi il cor m' aperse:
date udïenza insieme
alle dolenti mie parole estreme.
. . . . .
Da' be' rami scendea
(dolce nella memoria)
una pioggia di fior sovra il suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già dell' amoroso nembo.6
Qual fior7 cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch' oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l' onde;
qual con un vago errore8
girando, parea dir: qui regna Amore.

1 pose = adagiò
2 che sola a me par donna = che a me sembra la sola donna, l' unica degna di chiamarsi donna
3 mi rimembra = mi ricordo
4 .... colonna = perché a quel ramo lei si era appoggiata con un fianco
5 la gonna .... seno = la leggiadra gonna ricoprì (erba e fiori) insieme all' angelico seno
6 coverta .... nembo = coperta dalla nuvola (di fiori)
7 qual fior .... = alcuni fiori si posavano ...., altri...., etc.
8 vago errore = bell' errare, bel volteggiare

 

E chiudiamo, ancora dal Canzoniere, con una "sestina" (prime due strofe).

A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti c'hanno in odio il Sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno;
ma poi ch' il ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa, e qual s'annida in selva
per aver posa almeno infin all' alba.

Ed io, da che comincia la bell' alba
a scuoter l' ombra intorno della terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ho mai triegua di sospir col Sole:
poi quand' io veggio fiammeggiar le stelle,
vo lagrimando e desiando il giorno:
. . . .

Il Poeta ci dice che gli animali, salvo quelli notturni, si affannano durante il giorno, ma poi la notte riposano; lui invece, per le pene d' amore, non ha tregua dall'alba al tramonto e quando cala la notte continua a piangere aspettando il nuovo giorno.

La caratteristica di questa composizione, come si vede già in quest' inizio, è che le parole finali dei versi (terra - Sole - giorno - stelle - selva - alba) sono sempre le stesse in ogni strofa e ruotano, non in modo casuale, ma secondo un ben preciso schema che si ripete. Anche questo è un gioco raffinato e complicato, adatto al gusto medioevale, quando fra l' altro non c' erano televisione e computer a portar via tempo!