Le rubriche
Piccola Storia della Poesia Italiana
di Mario Macioce
tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze
XIII parte
La figura più significativa della seconda metà dell'Ottocento
è Giosuè Carducci, che apre una nuova
grande stagione della poesia italiana. Nato a Valdicastello, in Versilia,
nel 1835, visse per 10 anni in Maremma, studiò a Firenze e a
Pisa, dove si laureò in Lettere.
Colpito da tragedie familiari, il suicidio del fratello Dante e la morte
di dolore del padre pochi mesi dopo, si trovò a capo della famiglia
e in gravi ristrettezze economiche.
Nel 1859 sposò una cugina, a cui aveva dedicato per anni liriche
d'amore; fu insegnante, prima al liceo e poi all'Università,
a Bologna. Qui ebbe la sua affermazione letteraria e politica, ma le
sue idee democratiche e repubblicane gli crearono anche dei problemi.
Nel 1870 perse la madre e poi il figlioletto Dante di 3 anni.
In seguito raggiunse la pienezza della sua arte e compì anche
un cammino spirituale e politico che lo portò a toni moderati
e persino ad avvicinarsi alla monarchia (tanto che alcuni lo considerarono
un traditore!).
Nel 1890 fu nominato senatore e conobbe la giovane poetessa Annie Vivanti,
per cui nutrì un'affettuosa amicizia, testimoniata anche da alcune
poesie; ma la salute peggiorava, fino a dover lasciare, nel 1904, l'insegnamento.
Morì nel febbraio del 1907, l'anno dopo aver vinto il premio
Nobel.
La sua prima raccolta, "Juvenilia", è una specie di
tirocinio artistico, in cui abbondano le imitazioni di poeti antichi
e recenti, sia nello stile che nei metri.
Da "Levia gravia" (che significa "Cose leggere e cose
importanti") questo è l'inizio del sonetto Per Val d'Arno:
Né vi riveggo mai, toscani colli,
colli toscani ove il mio canto nacque
sotto i limpidi soli e tra le molli
ombre de' lauri a' mormorii de l'acque.
Da "Giambi ed epodi", terza raccolta, una strofa da Il
canto dell'amore:
Nel roseo lume placidi sorgenti
i monti si rincorrono tra loro,
sin che sfumano in dolci ondeggiamenti
entro vapori di viola e d'oro.
Dalle "Rime nuove", quarta raccolta che abbraccia un lungo
periodo, alcuni versi da Idillio maremmano, in terzine incatenate:
Com'eri bella, o giovinetta, quando
tra l'ondeggiar de' lunghi solchi uscivi
un tuo serto di fiori in man recando,
alta e ridente, e sotto i cigli vivi
di selvatico fuoco lampeggiante
grande e profondo l'occhio azzurro aprivi!
. . . . . .
oh come fredda indi la vita mia,
come oscura e incresciosa è trapassata!
meglio era sposar te, bionda Maria!
e poi Pianto antico, la commovente poesia scritta in ricordo
del figlioletto morto:
L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano
il verde melograno
da' bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
Nelle "Odi barbare" (che chiamò così perché
tali sarebbero sembrate ad un poeta dell'antica Roma) Carducci volle
imitare i metri della poesia latina, come appare da questi versi iniziali
della poesia Nella piazza di San Petronio; il ritmo è
duro e insolito, dato che si trasportano in un'altra lingua caratteristiche
metriche molto diverse.
Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna
e il colle sopra bianco di neve ride.
E' l'ora soave che il sol morituro saluta
le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo;
le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe,1
e del solenne tempio la solitaria cima.
1 lambe = lambisce
Da "Rime e ritmi", sesta ed ultima raccolta, l'inizio di Piemonte:
Su le dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga
da' ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti:
ma da i silenzi de l'effuso azzurro
esce nel sole l'aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.
E in chiusura di "Rime e ritmi", Carducci ci saluta con un
suo stornello, intitolato appunto Congedo:
Fior tricolore,
tramontano le stelle in mezzo al mare
e si spengono i canti entro il mio cuore.
Cito soltanto Antonio Fogazzaro (1842-1911), bravo
poeta, ma noto soprattutto per la sua opera di romanziere (è
autore fra l'altro di Piccolo mondo antico).
Renato Fucini, di Monterotondo (GR) (1843-1921), scrisse
in poesia e in prosa con lo pseudonimo di Neri Tanfucio, e più
che nel filone principale della poesia italiana, ha avuto importanza
in quella vernacolare. Di lui riporto solo questa curiosa strofetta:
Chiese al ventaglio un dotto archimandrita:
«Dimmi, ventaglio, che cos'è la vita?»
E il ventaglio con molle ondeggiamento:
«E' tutto vento, vento, vento, vento ...».
Olindo Guerrini (Forlì 1845-1916), seguace del
Carducci, è autore tra l'altro della raccolta "Postuma",
in cui, con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, finge di pubblicare
i versi di un (inesistente) cugino morto di tubercolosi a trent'anni,
e raggiunge il successo, facendo commuovere mezza Italia. (Mi si
spezza la testa. Io son malato / e la febbre mi brucia entro le vene.
/ ...).
Guerrini oscillò da temi fortemente impegnati ad altri scioccanti
o triviali, ad altri ancora ironici o lirici; per giunta scrisse sia
in italiano che in vari dialetti.
E' nota la sua poesia Il canto dell'odio, in cui il tema ricorrente
dell'amore legato alla morte e al disfacimento fisico, già presente
in Baudelaire e in altri poeti, è condotto fino in fondo con
crudo realismo.
Quando tu dormirai dimenticata
Sotto la terra grassa
E la croce di Dio sarà piantata
Ritta sulla tua cassa,
Quando ti coleran marcie le gote
Entro i denti malfermi
E nelle occhiaie tue fetenti e vuote
Brulicheranno i vermi,
Per te quel sonno che per altri è pace
Sarà strazio novello
E un rimorso verrà freddo, tenace,
A morderti il cervello.
. . . . .
E chiudiamo con una poetessa, Vittoria Aganòor Pompilj
(1855-1910), nata a Padova da una nobile famiglia armena; pubblicò
i suoi versi solo a partire dal 1900. Ecco l'ultima strofa di una sua
canzone:
Viene il vento recandomi un sottile
odor di selva; annotta, e sui tranquilli
campi l'ombre si stendono. Una nota
limpida sale, si ripete, erompe
in improvvisi strilli,
in una frenesia di gioia, ignota
a noi, fatti di fango e di menzogna.
La notte ascolta e beve da quel canto
l'estasi. La mia vecchia anima sogna .
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