Le rubriche
Piccola Storia della Poesia Italiana
di Mario Macioce
tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze
XIV parte
Il secondo dei tre Grandi della poesia italiana tra Ottocento e
Novecento è Giovanni Pascoli. Nato a S. Mauro
di Romagna il 31/12/1855 (e quindi di 20 anni più giovane del
Carducci), quarto di 10 fratelli, ebbe una giovinezza molto travagliata.
A soli 11 anni rimase orfano del padre, ucciso in un agguato; il delitto
(di cui il Poeta parlerà ne La cavalla storna) restò
impunito.
Appena un anno dopo morì anche la madre, vinta dal dolore, ed
erano morte in quegli anni tre delle sorelle.
Costretto a lasciare il collegio di Urbino, riuscì a conseguire
la licenza liceale e a vincere una borsa di studio per l'Università
di Bologna (esaminato proprio da Carducci). Ma anche questi anni furono
segnati dalla tragedia (la scomparsa dei fratelli Luigi e Giacomo) e
da crescenti problemi economici; il dolore per le ingiustizie lo spinse
poi all'abbandono degli studi e ad atteggiamenti antireligiosi e di
rivolta sociale; in seguito a varie manifestazioni, conobbe per qualche
mese anche il carcere, prima di essere assolto.
Tornato agli studi, si laureò con lode in Lettere e iniziò
la carriera di insegnante, a Matera, poi a Massa e a Livorno. Nel 1895
prese in affitto una casa in Garfagnana, a Castelvecchio, presso Barga,
(che acquisterà poi grazie alle numerose medaglie d'oro vinte
al concorso di Amsterdam per la poesia latina) e lì volle ricostituire
un minimo di unità familiare con le sorelle Ida e Maria.
Intrapresa la carriera universitaria, fu per alcuni anni a Messina e
a Pisa, quindi nel 1905 a Bologna ad occupare la cattedra di letteratura
italiana lasciata dal Carducci.
Ma pochi anni dopo si manifestarono i sintomi della grave malattia (tumore)
che lo avrebbe portato alla morte, il Sabato Santo del 1912.
Pascoli scriveva già, tredicenne, una poesia per la morte di
un compagno di collegio, che in seguito avrebbe ricordato ne L'aquilone.
Continuò poi a comporre, ma molte di queste poesie giovanili
andarono perdute e altre furono pubblicate postume dalla sorella Maria
nella raccolta Poesie varie.
Dalla prima raccolta, "Myricae", stampata nel 1891 e poi
ampliata in successive edizioni, le strofe iniziali di Romagna:
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra visïon di San Marino:
sempre mi torna al cuore il mio paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator1 cortese,
re della strada, re della foresta.
. . . . . .
1 celebre brigante romagnolo
e poi Il lampo:
E cielo e terra si mostrò qual'era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto1
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.
1 tacito tumulto = la visione drammatica, nel silenzio
che precede il tuono
(Si noti che nonostante l'uso abbondante di virgole, non ce n'è
tra "apparì sparì" e "s'aprì si
chiuse", per sottolineare la rapidità del cambiamento.)
Da "Primi Poemetti", alcuni versi di Digitale purpurea,
composizione in terzine incatenate:
« . . . . . .
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.
Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
. . . . . .
Dai "Canti di Castelvecchio", la raccolta forse più
bella, ecco l'inizio de La poesia:
Io sono una lampada ch'arda
soave!
la lampada forse che guarda,
pendendo alla fumida trave,
la veglia che fila;
e ascolta novelle e ragioni
da bocche
celate nell'ombra, ai cantoni,
là dietro le soffici ròcche
che albeggiano in fila
. . . . . .
poi le prime strofe de L'ora di Barga:
Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.
Tu dici, E' l'ora! tu dici, E' tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.
. . . . . .
e l'inizio de La mia sera:
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
. . . . . .
e infine alcuni versi de La tessitrice, ricordo d'una fanciulla
morta:
. . . . . .
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?
. . . . . .
Pascoli compose anche in latino; questo è l'inizio di un poemetto
in esametri "Thallusa", con cui vinse la medaglia
d'oro nel concorso di Amsterdam:
Implicitos dextra pueros laevaque trahebat
serva duos, haud invitos sed saepe morantes.
. . . . . .
(La schiava trascinava, aggrappati a destra e a sinistra,
due piccoli, non riluttanti ma che spesso si fermavano...)
Per finire, ancora dai "Poemetti", le ultime strofe de L'aquilone,
la bellissima poesia in terzine incatenate, in cui Pascoli ricorda il
compagno morto prematuramente:
. . . . . .
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi petali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle,
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre... adagio, per non farti male.
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