Le rubrichePiccola Storia della Poesia Italianadi Mario Maciocetratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze
XXI parte Siamo ad Eugenio Montale, uno dei maggiori poeti del Novecento. Nato a Genova nel 1896, ultimo di sei fratelli, si diplomò in ragioneria, fu ufficiale e partecipò, volontario, agli ultimi mesi della guerra 1915-18; congedato, fu in ansia per anni per il suo futuro, con momenti anche di depressione, desiderando, e al tempo stesso temendo, di trovare un posto modesto da impiegato; intanto si dedicava, non assiduamente, a letteratura e giornalismo. (In questo era modernissimo, come i trentenni di oggi che restano in famiglia e non si decidono a prendere il volo, anche per le aspettative troppo alte). Finalmente nel 1927 ottenne un impiego precario presso l'editore Bemporad e si trasferì a Firenze; nel '29 fu nominato direttore del Gabinetto Vieusseux e vi rimase una decina di anni, pubblicando nel frattempo la raccolta " Ossi di seppia " e numerosi articoli su riviste; fu dimesso nel 1938, all'epoca delle leggi razziali, dovendo il Vieusseux diventare un centro di documentazione del regime. Le sue condizioni psichiche, non ottimali fin dal tempo delle incertezze giovanili, non migliorano con gli anni e con la situazione, tanto che durante la guerra, dopo varie visite e rinvii, viene definitivamente congedato, e si alternano periodi di lavoro (come traduttore, saggista o poeta), periodi di inattività, ipotesi di accettare incarichi a Venezia o a Roma, tentazioni di suicidio e progetti di fuga in America; nel 1939 pubblica però la sua seconda raccolta, " Le occasioni " e poi " Finisterre " (confluito in seguito ne " La bufera e altro "). Qualcuno ha il coraggio di dire di lui che si esprime in versi liberi, ma allora tanto vale dire che anche Dante poetava in versi liberi, visto che ... non l'obbligava nessuno! In realtà Montale si allacciò alla tradizione nell'uso frequente di metrica e di rima, ma fu personale nella scelta del polimetro (mescolanza di versi di varia lunghezza, ma tutti o quasi in perfetta metrica), nella presenza di assonanze o della rima ipermetra (valli - pallido) e nell'inserimento di qualche verso molto lungo o dagli accenti insoliti. (Ma l'uso dell'ottonario con accenti su 4a (o 2a ) e 7a sillaba, invece dello schema tradizionale ritmato e cantilenante, è comune a tutti i poeti del novecento). Quanto detto vale soprattutto per il Montale di " Ossi di seppia " (1920-1927) (o di " Le occasioni " - 1928-39 - e de " La bufera " - 1940-1954), che peraltro è il Montale conosciuto e apprezzato dalla generalità dei lettori, perché è accaduto a lui, come ad altri grandi, di sopravvivere a se stesso: cioè di pubblicare, per i doveri verso il proprio nome, verso gli editori e verso il pubblico, anche quando la vena era in parte esaurita o le pressioni erano tali da non lasciare il tempo per far di meglio. Le opere infatti da "Satura " (1971) ai " Diari " a " Altri versi " (1981) contengono, sì, molti versi liberi, ma non molta poesia (verificare, se non ci si crede). Da “Ossi di seppia”, l'inizio di Vento e bandiere : La folata che alzò l'amaro aroma Meriggiare pallido e assorto E andando nel sole che abbaglia Spesso il male di vivere ho incontrato: Bene non seppi, fuori del prodigio * Cigola la carrucola del pozzo, La gondola che scivola in un forte una sera tra mille e la mia notte Al Saint James di Parigi dovrò chiedere
Ed ora è la volta di Salvatore Quasimodo; nato a Modica (RG) nel 1901, vinse il Nobel, soprattutto per le sue traduzioni di lirici greci, che sono appunto traduzioni e neppure eccezionali (ma le vie del Nobel sono imperscrutabili). Studiò in Sicilia, poi fu impiegato del Genio Civile per diversi anni e in varie città; in seguito insegnò letteratura italiana, e fu giornalista e traduttore. Pubblicò nel 1930 la sua prima raccolta di poesie, " Acque e terre ", due anni dopo " Oboe sommerso " e nel 1940 " Lirici greci ". Morì nel 1968. Da "Acque e terre" la celeberrima Ed è subito sera : Ognuno sta solo sul cuor della terra Non una dolcezza mi matura, O mia Gòngila, ti prego: Così adorna, fai tremare chi guarda;
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